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Temi giovannei nella regola di San Benedetto e loro attualità
Intervento al congresso dei superiori monastici di Francia (Parigi, 6 dicembre 1974)
Il tema delle riflessioni seguenti, che ho l’onore di sottoporvi, mi è venuto alla mente quando ho notato che nella regola di san Benedetto [=RB]1 su più di sessanta citazioni dei vangeli sinottici e circa ottanta del corpus paolino, il vangelo di Giovanni non è citato che cinque volte, le lettere tre volte, l’Apocalisse una volta. Queste citazioni esplicite, del resto, si trovano già tutte nella regola del Maestro. C’è di più: tra le citazioni principali [di Giovanni], quella del «buon pastore» (RB 27,8) non fa che introdurre una allusione molto più esplicita a Luca 15 («relictis nonaginta novem», ecc. [«lasciate le novantanove…»]). Un’altra, capitale, sull’obbedienza di Cristo (Gv 6,38: «non veni facere voluntatem meam sed eius qui misit me» [«non sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato»], due volte – RB 5,13 e 7,32 –, ma secondo De Vogüé «un autentico luogo comune» della tradizione, citato quattro volte nella regola del Maestro) trova al terzo gradino di umiltà un parallelo paolino: «factus oboediens usque ad mortem» [«fattosi obbediente fino alla morte», Fil 2,8], e dunque non sembra indicare nulla di specificamente giovanneo. Infine, il rilevante terzo passo sul discernimento degli spiriti che bisogna applicare ai postulanti – «probate spiritus si ex Deo sunt» [«esaminate gli spiriti, se vengono da Dio»] (1 Gv 4,1) – potrebbe ugualmente e senza fatica essere sostituito da una parola analoga di san Paolo [cfr. 1 Ts 5,21].
Come spiegare questa lacuna così sorprendente? Lo spirito di san Benedetto sarebbe estraneo a quello del quarto vangelo? Ripetiamolo, tutte le citazioni giovannee provengono dal Maestro, che Benedetto il più delle volte abbrevia; la maggioranza delle venticinque citazioni giovannee del Maestro si trova nei brani omessi. Quanto al Maestro, con la sua rigidità e il suo sistema ascetico meticoloso e chiuso, lo si può credere abbastanza distante dallo spirito giovanneo, nel quale l’amore di Dio e dei fratelli è l’unica legge della vita cristiana.
Vorrei mostrare, tuttavia, che questo primo approccio è ingannevole. Lo è, soprattutto, perché se il sistema del Maestro è chiuso e tende a chiudere in se stesso la rivelazione e la Scrittura, la regola benedettina, al contrario, è interamente aperta su tutte le Scritture, la cui lettura integrale è sempre supposta e più volte richiesta (RB 9,8; 11,12; 42,4; 48,1.15; 53,9; 73,3).
Una regola vivibile è ben altra cosa che un ricalco del Vangelo. La si potrebbe piuttosto paragonare a un canovaccio che non ha valore letterario proprio, ma è un mezzo per far vivere l’opera – e l’opera nel nostro caso è il Vangelo vissuto, la vita del discepolo, l’imitazione di Cristo. Bisognerebbe anche guardarsi dal paragonare la regola ad una legge, si rischierebbe di ripiombare nell’Antico Testamento – è il rimprovero che i protestanti fanno ai religiosi –, essa è piuttosto un aiuto (dato dallo Spirito alla Chiesa e dalla Chiesa al cristiano) per far perseverare il discepolo nella carità, nella serietà della libera donazione totale di se stesso. Una spalliera che ci obbliga a salire più su e a portare più frutti, invece che strisciare per terra.
Questo colpisce particolarmente quando apriamo l’austera regola di Pacomio, priva di ogni lirismo, pressoché senza accento pneumatico. Ma a fianco della regola, le lettere e i frammenti di catechesi ci rivelano un uomo del tutto diverso: i riferimenti alla Bibbia si moltiplicano, così come il ricordo degli esempi dei «santi», cioè dei grandi personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Stessa osservazione per i suoi successori Teodoro e Orsiesi. Il monastero pacomiano che, giudicato secondo la sola regola, sembra essere una specie di caserma, si trasforma in «santa koinônia» animata dall’amore e dalla mutua edificazione dei fratelli. «Un solo cuore con il tuo fratello»2. «Il precetto “Ama il tuo prossimo come te stesso”», dice Teodoro, «supera tutti i comandamenti ed è nostro dovere davanti al Signore adempierlo»3.
Noi non possediamo, ahimé, nessuna opera catechetica di Benedetto, in compenso è innegabile che per tutta la parte catechetica della sua opera egli si affida al Maestro, il quale, nella sua lunga introduzione, ha piuttosto la tendenza a sfruttare le parti parenetiche della Bibbia per corredarne la sua regola.
Evidentemente, c’è il caso, a prima vista stupefacente, «del nostro santo padre Basilio» («sancti patris nostri Basilii», RB 73,5), al quale Benedetto in questo modo rinvia espressamente: in Basilio – inizialmente – non c’è alcuna distinzione tra il Vangelo e la regola, piuttosto si tenta l’impresa ardita di afferrare al vivo la regola della vita cristiana nello stesso testo evangelico. Nelle Regole Morali le citazioni giovannee abbondano4. Tuttavia queste Regole non sono state scritte per dei monaci, ma piuttosto per cristiani ferventi; in seguito, quando si formeranno dei gruppi distinti, Basilio non è giunto (persino nelle sue Grandi Regole) a formulare un regolamento paragonabile a quello di Pacomio, di Cassiano, del Maestro e di san Benedetto.
Infine, man mano che la regola di Benedetto progredisce, si fa sempre più sensibile l’influsso di Agostino. L’accento è messo sulla carità fraterna e, nella seconda trattazione sull’abate (al cap. 64), sulla carità del Buon Pastore, sul «prodesse magis quam preesse» [«aiutare più che comandare»]. «Studeat plus amari quam timeri» [«Cerchi più di essere amato che di essere temuto»], «et semper superexaltet misericordiam iudicio» [«e sempre faccia prevalere la misericordia sulla giustizia»]. Senza che si possano rilevare delle citazioni esplicite di san Giovanni, un’atmosfera tutta giovannea penetra nella regola, soprattutto verso la fine.
Per cogliere lo spirito di Benedetto, torniamo ancora una volta all’ultimo capitolo così decisivo. Qui c’è l’apertura integrale verso le fonti e verso tutta la tradizione vivente. Egli ha scritto «hanc minimam inchoationis regulam» [«Questa minima regola per chi è agli inizi»], come «initium conversationis» [«inizio di vita di conversione»] da cui ci si potrà slanciare (festinare) sulla scia dei santi Padri, avendo allora la Scrittura intera come regola inesauribile: «quae enim pagina aut quis sermo divinae auctoritatis Veteris ac Novi Testamenti non est rectissima norma vitae humanae?» [«infatti, quale pagina o quale parola di autorità divina dell’Antico e del Nuovo Testamento non è una norma rettissima per la vita umana?»] (RB 73,3). E se per Benedetto c’è decadenza del monachesimo nel VI secolo, non sono le antiche regole che egli vorrebbe ristabilire per porvi rimedio, ma le vite, le realizzazioni evangeliche dei grandi predecessori. Le regole di Basilio e di Cassiano «quid alium sunt nisi bene viventium et oboedietium monachorum instrumenta virtutum» [«che altro sono se non strumenti di virtù per i monaci obbedienti e di buona condotta»], per giungere anche oggi «ad perfectionem conversationis … sanctorum catholicorum Patrum» [«alla perfezione della vita di conversione … dei santi Padri cattolici»] (RB 73,2.4)?
Adattando la sua regola allo spirito di Agostino e di Basilio, e attraverso questi due già implicitamente a quello di san Giovanni, aprendola d’altra parte a tutta intera la Scrittura come regola di vita – che significa concretamente: al mistero del Cristo – Benedetto si trova necessariamente a confronto con l’ultima e più profonda interpretazione di questo mistero: quella di Giovanni.
Per ben valutare questo incontro, bisogna saper leggere la regola come in trasparenza: ciò che descrive in recto l’esercizio quotidiano del monaco non lo si comprende veramente se non come l’eco, il riflesso, il riverbero di Cristo stesso, che allora diventa il tema principale, diretto, unico, tale e quale ce lo mostra il Vangelo. È il Cristo che rappresenta lo scopo e l’elemento stabile, la stabilitas. Il monaco, da parte sua, partecipa a questa stabilità cristica con il suo voto, la sua decisione presa una volta per tutte. Ma non può parteciparvi che attraverso lo sforzo quotidiano del currere, festinare, σπεύδειν [«correre, affrettarsi, darsi da fare»].
La formale apertura della regola sulla rivelazione integrale ci autorizza a questo rovesciamento: è la teologia o meglio il Cristo che ha il primato ed è l’ascesi che è secondaria e che la serve. Questo principio, se non mi inganno, ci conduce lontano, ci domanda non solamente di non fermarci al solo ritratto di Cristo tracciato dai sinottici, né ai consigli morali di san Paolo, ma di ricomporre l’immagine giovannea di Cristo. Forse ci domanda perfino di leggere in trasparenza il carisma speciale di Benedetto – questo carisma così pronunciato di «vigilante» nella notte di questo mondo, un carisma segnato dal «custos quid de nocte» [«sentinella, quanto resta della notte?»] (Is 21,11), dall’attitudine auspicata dal Cristo sinottico a distinguere gli spiriti e a leggere i segni dei tempi –, di andare al di là di esso, dunque, per vivere col Cristo giovanneo nella krisis permanente della luce e delle tenebre.
Prima di affrontare qualche tematica particolare, mostriamo semplicemente che questo rovesciamento non è né artificiale né violento. Ce ne rendiamo conto particolarmente nei passaggi in cui ci viene descritta l’obbedienza perfetta. È del tutto evidente che essa non vuol essere un tour de force ascetico, trae piuttosto tutta la sua forza dall’esempio di Cristo. È qui che interviene per due volte la citazione di san Giovanni: «Non veni facere voluntatem meam, sed eius qui misit me» [«Non sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato»] (Gv 5,13; 7,32). San Basilio nella regola latina (cap. 69) ci dice: «Cum definitum sit, mensuram oboedientiae usque ad mortem esse» [«Essendo definito che la misura dell’obbedienza sia fino alla morte»]5. È perché Dio Padre domanda al Figlio di compiere degli impossibilia, di portare in sé tutto ciò che per Dio è impossibile, esecrabile, rivoltante, che egli muore. Ed è unicamente questo esempio di Cristo che giustifica l’ammirabile capitolo 68 di Benedetto: «Si fratri impossibilia iniungantur» [«Se a un fratello vengono ingiunte cose impossibili»]. Se il fratello presenta (secondo la regola), senza volontà di contraddire, le ragioni della sua incapacità al suo superiore, egli seguirà l’esempio di Cristo al Getsemani, e se, dopo la sua richiesta, il superiore mantiene il suo ordine, egli lo seguirà fino alla croce. E tanto che ci siamo, perché non collegare tutto di seguito le due altre grandi articolazioni dell’«ars spiritalis» alla cristologia: l’«humilitas» [«umiltà», RB 7,] all’abbassamento del Figlio fino al completo annullamento di se stesso, e la «taciturnitas» [«taciturnità», RB 6,] al compimento del «Verbum caro factum» [«il Verbo si è fatto carne»], allo sprofondamento del Verbo nell’adempimento esistenziale silenzioso, alla maniera dell’agnello «qui occisus est ab origine mundi» [«ucciso sin dall’origine del mondo», Ap 13,8], condotto al macello «non aperiens os suum» [«senza aprire la sua bocca», Is 53,7].
Il giovane monaco che pronuncia i suoi voti si consegna al Signore, passa dall’antropologia (anche spirituale) alla cristologia: «Suscipe me, Domine, secundum eloquium tuum, et vivam» [«Accoglimi, Signore, secondo la tua parola, e vivrò»] (RB 58,21).
Tentiamo adesso di illustrare questo passaggio alla cristologia trattando più da vicino quattro temi che sono al cuore sia della regola sia del quarto vangelo. Essi sono:
- la stabilitas, il ménein degli scritti giovannei;
- la discretio (discernimento) o la krísis della luce e delle tenebre;
- l’obbedienza compresa come atto d’amore perfetto;
- la concrezione dell’autorità: del Padre nel Cristo, del Cristo nell’Abate.
Ognuno di questi temi esigerebbe lunghi sviluppi; io mi limito a un abbozzo, che nondimeno vorrebbe far risaltare l’attualità di questi temi.
1. È evidente che la stabilitas di Benedetto è l’incarnazione, la concretizzazione di un atteggiamento e di una decisione puramente spirituale. Basta notare le giustapposizioni: «stabilitas seu perseverantia» [«stabilità ovvero perseveranza»] (RB 58,9), «stabilitas, conversatio morum et oboedientia» [«stabilità, conversione dei costumi e obbedienza»] (RB 58,17), «si (hospes) voluerit stabilitatem suam firmare» [«se (l’ospite) vuole confermare la sua stabilità»] (RB 61,5). Oppure, con un accento apertamente cristologico, che ha di mira non un atto, ma uno stato di Cristo: «si revera Deum quaerit, si sollicitus est ad opus Dei (forse qui: la vita intera al servizio di Dio)6, ad oboedientiam, ad opprobria» [«se davvero ama Dio, se è sollecito all’opera di Dio, all’obbedienza, agli obbrobri»] (RB 58,7). La vita religiosa è essenzialmente un impegno a vita, i voti temporanei non possono essere compresi e accordati che come un avviamento deciso verso un tale impegno. Con esso si entra in uno stato cristico. «Venerunt et viderunt ubi maneret, et apud eum manserunt die illo, hora autem erat quasi decima» [«Vennero e videro dove dimorava, e rimasero presso di lui quel giorno; era circa l’ora decima»] (Gv 1,39). Si resta in monastero perché si resta con il Cristo. E secondo il primo gradino di umiltà si resta stabiliti, come lui, sotto lo sguardo del Padre. «Non potest Filius a se facere quidquam, nisi quod viderit Patrem facientem … Pater enim diligit Filium et omnia demonstrat ei…» [«Il Figlio da sé stesso non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre … il Padre infatti ama il Figlio e gli mostra tutto…»] (Gv 5,19). E Benedetto: «oblivionem omnino fugiat et semper sit memor omnia quae praecepit Deus» [«fugga del tutto la dimenticanza, e sia sempre memore di tutte le cose che Dio ha comandato»] (RB 7,10-11).
Ecco una forma di incarnazione peculiare al monachesimo, che conserva tutto il suo valore teologico, tanto incarnatorio quanto escatologico. Non c’è bisogno di dilungarsi sul valore di questo segno oggi, quando tanti uomini sradicati cercano la stabilità con lo stesso ardore che al tempo dell’invasione dei barbari.
Naturalmente si può assegnare alla stabilità monastica il suo luogo nel mistero dei quaranta giorni trascorsi da Cristo nel deserto. Si ha anche motivo di farlo, se si mette l’accento sulla tentazione, la vigilanza, la penitenza. Ma a me sembra che bisognerebbe pensare non meno, e forse innanzitutto, al deserto del dodicesimo capitolo dell’Apocalisse. Perché là l’esistenza nella solitudine, la stabilità di questa esistenza, si estende al tempo della Chiesa tutta, caratterizzandola profondamente. Non si tratta di una ascesi filosofica, benché tutte le forme esteriori del monachesimo si ritrovino in India e presso i Pitagorici, non solamente l’anachoresis e il koinobion, il monazein e l’enkleismos, ma anche il kathezesthai, che secondo molti corrisponderebbe alla stabilitas. Secondo Giovanni, però, il motivo è pienamente teologico. Il pitagorico fugge il mondo, mentre la Chiesa dell’Apocalisse riceve nel deserto «un luogo preparato da Dio, per esservi nutrita» [Ap 12,6] durante i tempi della tribolazione «ἀπὸ προσώπου τοῦ ὂφεως» [Ap 12,14], lontana dalla presenza del dragone, benché il dragone si sforzi di condurla alla rovina. Conviene che questa situazione permanente della Chiesa sia rappresentata, visibile a tutti, dall’esistenza monastica nella stabilità.
Ricordiamo che il deserto biblico è a doppia faccia: intimità con Dio, ma nella derelizione, in luoghi abitati dai fantasmi e dai demoni. Nel Nuovo Testamento i due significati divengono inseparabili. Ascoltiamo Berengaudo sull’Apocalisse: «Solitudinem Christum vocat … Christus desertus est a suis: … in propria venit et sui eum non receperunt [Gv 1,11]. … Torcular calcavi solus [Is 63,3]. Mulier igitur fugit in solitudinem, quia apostoli et coeteri discipuli … relicto diabolo, relictisque omnibus quae possidebant, Christum secuti sunt [Mt 19,27]» [«(L’Apocalisse) si riferisce a Cristo con l’immagine della solitudine del deserto … Cristo è stato abbandonato (desertus) dai suoi: … venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto … Ho premuto il torchio da solo. Dunque la donna fugge nella solitudine: infatti gli apostoli e gli altri discepoli … abbandonato il diavolo, e lasciato tutto ciò che possedevano, hanno seguito Cristo»]7. Allo stesso modo Ruperto di Deutz: la donna fugge nel deserto «quia videlicet nihil possidere in hoc mundo fida et tranquilla mentis solitudo est» [«perché evidentemente non possedere nulla in questo mondo è la sicura e tranquilla solitudine del cuore»]8. Il deserto è l’immobilità. La donna rimane (ménei) senza che lei stessa combatta, è la terra che viene in suo soccorso. Ella non si dà pensiero del cibo, Dio vi provvede. Il deserto, inoltre, è un luogo di visione (Ap 17,3): Giovanni è trasportato nel deserto per vedere la donna seduta sulla bestia e per assistere al suo giudizio. Il deserto, riscoperto da Charles de Foucauld, è una figura fondamentale della Bibbia, un’idea che non si limita al suo aspetto geografico: «Relinquetur vobis domus vestra deserta» [«La vostra casa vi sarà lasciata deserta», Lc 13,35].
2. È precisamente qui che s’inserisce il secondo aspetto giovanneo: il combattimento o, più esattamente, il giudizio (krísis) delle tenebre da parte della luce. Il combattimento spirituale è il tema più antico e più tradizionale della teologia monastica, da Antonio e i pacomiani attraverso Evagrio – qui più che mai discepolo di Origene –, Girolamo, le omelie macariane, Cassiano, il Maestro. Ma tutti questi combattimenti sono in primo luogo ascetici, sforzi per raggiungere la pace di Dio e del Cristo. Anche se l’asceta conduce le sue battaglie in quanto discepolo di Cristo, vincendo con lui le tentazioni degli «otto pensieri malvagi», egli non emerge che raramente in questa sfera giovannea, nella quale tutto l’essere del Verbo incarnato è sempre «lux quae in tenebris lucet» [«luce che splende nelle tenebre»] (Gv 1,4). Ma è tuttavia in questa sfera che sembra situarsi la visione finale di Benedetto. Il monaco è trapassato da parte a parte dalla linea di demarcazione: «amor Dei – timor Dei», amore di Dio e timore di Dio. La sua esistenza quotidiana consiste in un continuo sforzo per superare questa linea. «Currite dum lumen vitae habetis, ne tenebrae mortis vos comprehendant» [«Camminate finché avete la luce della vita, perché le tenebre della morte non vi sorprendano»] (Gv 12,35: RB Prol 13): curiosa citazione giovannea, in cui la luce non è intesa come quella del Cristo ancora in vita, ma come quella della vita umana mortale. È il movimento perpetuo: «Deverte a malo et fac bonum» [«Distogliti dal male e fa’ il bene», Sal 33,14; RB Prol 17], un movimento che nasconde in sé una tentazione, quella di attribuirsi il merito dello sforzo: «qui timentes Dominum, de bona observantia sua non se reddunt elatos, sed … Dominum magnificant … dicentes: Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam … Qui gloriatur in Domino glorietur» [«coloro che, temendo il Signore, non si insuperbiscono della loro buona osservanza, ma … magnificano il Signore … dicendo: Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da’ gloria … Chi si vanta, si vanti nel Signore»] (RB Prol 29-32). Ma bisogna accostare queste frasi del Prologo alla grande discesa del cap. 7, per scoprirvi la portata cristologica. Perché non soltanto confessare, ma credere «intimo cordis affectu» [«con intimo affetto del cuore»] che si è «un verme e non un uomo, l’obbrobrio degli uomini e il rifiuto del popolo» (RB 7,52)? Questo non può aver senso che in virtù della conformazione al Cristo sofferente, alla luce che penetra nel più intimo delle tenebre, fino alla identificazione redentrice con esse per dissiparle dal di dentro.
Il cristiano resterà sempre sulla soglia di questo mistero: da una parte, deve superare il puro ascetismo per seguire il Cristo; dall’altra, è incapace di identificarsi col Cristo e con la sua opera. Egli resta in sospeso, l’ellisse della sua coscienza non potrà mai arrotondarsi in un cerchio. L’esempio di san Paolo su questo punto è molto netto. Crocifisso col Cristo, portando le sue stigmate, egli non si arroga da nessuna parte una funzione di corredentore: «È forse Paolo che è stato crocifisso per voi?» [1 Cor 1,13].
È precisamente in questo interstizio che si colloca la vocazione benedettina. «Vegliate e pregate» [Mt 26,41], per voi stessi e per il mondo, ma vegliate e pregate con me, nel Getsemani, con me, che sono io stesso nella più cupa tentazione.
3. Abbiamo già detto del ruolo senza eguali dell’obbedienza. Bisogna ora studiare la sintesi che in essa si opera tra autorità e amore. Questa unione, per Benedetto, corrisponde, sul piano storico, esteriore, alla sintesi che egli stabilisce tra il Maestro e Agostino. Ma più profondamente è una sintesi cristologica. Ciò non appare che durante lo svolgimento della regola. All’inizio, l’obbedienza all’abate – al Maestro, che apre il primo versetto del Prologo – appare come un assoluto, indivisibile, il cui senso si suppone noto. In effetti, Benedetto non fa che riassumere e prolungare la lunga tradizione monastica sulla relazione tra il pater pneumatikós («padre spirituale» che è figura e rappresentante del Cristo) e il discepolo, il quale attraverso il suo padre spirituale riceve gli ordini del Signore. In questo schema primitivo, sono uniti indissolubilmente due aspetti; essi rimangono tanto più uniti in quanto il cenobitismo in pratica esclude la prospettiva ulteriore verso la vita eremitica: l’obbedienza al pater pneumatikós, all’Abba, non è solo una misura pedagogica e dunque limitata nel tempo, ma possiede un valore assoluto, insuperabile.
I due aspetti dell’obbedienza, inseparabili, hanno ambedue il loro fondamento ultimo nel Cristo. Poiché da una parte l’abate non potrebbe esigere un’obbedienza assoluta, se egli non vi fosse autorizzato dal Cristo («Christi enim agere vices in monasterio creditur» [«Si crede che egli faccia le veci di Cristo nel monastero»]: RB 2,2). Egli lo rappresenta nella sua funzione, come dottore e pastore, ed è tenuto a rappresentarlo dando l’esempio della Parola incarnata: «Omnia bona et sancta factis amplius quam verbis ostendat» [«Mostri coi fatti più che con le parole tutto ciò che è buono e santo»] (RB 2,12). D’altra parte, l’obbedienza che gli è dovuta non è meno cristologica, perché dev’essere assoluta, senza riserve, compiuta per amore di Cristo («Nihil sibi a Cristo carius aliquid existimant» [«Non hanno niente più caro di Cristo»]: RB 5,2), nell’imitazione del Cristo («tales illam Domini imitantur sententiam qua dicit: Non veni facere voluntatem meam, sed eius qui misit me» [«essendo tali, imitano quella parola del Signore che dice: Non sono venuto a fare la volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato»]: RB 5,13), del Cristo che obbedisce a Dio suo Padre («quia oboedientia quae majoribus praebetur, Deo exhibetur» [«infatti l’obbedienza che si presta ai superiori si presta a Dio», RB 5,15]).
Dunque il Cristo si manifesta sia nel maestro sia nel discepolo, essendo in effetti lui stesso, inseparabilmente, il Logos che legifera e il Servo umiliato. Nella relazione monastica fondamentale, il Cristo è rappresentato nella sua esistenza drammatica e nelle sue dimensioni totali: nella sua sovranità divina e nel suo abbassamento fino all’ultimo posto (sesto e settimo gradino dell’umiltà). L’uno non si dà senza l’altro. Ed è la gloria e la semplicità sublime del monachesimo e della sua teologia vissuta di restare là: a questa rappresentazione drammatica o piuttosto sacramentale della persona e dell’azione di Cristo, senza volerla oltrepassare in una riflessione ulteriore, che d’altronde non condurrebbe che in un vicolo cieco.
La questione teorica che si può porre è la seguente: il Cristo umiliato obbedisce a Dio Padre, e non a se stesso, come può dunque l’abate, nel comandare, rappresentare il Figlio? Il monachesimo non può che rispondere con la frase di Cristo: «Chi vede me, vede il Padre» [Gv 14,9]. «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» [Gv 7,16]. E il rispetto del Figlio di fronte al Padre si traduce per l’abate nel timore del Signore, sottolineato molto fortemente: con il mandato che egli ha ricevuto, la cura d’anime che ha assunto, è posto lui stesso in un’obbedienza più stretta di ogni altro. Egli non può fare affatto quel che vuole, «quasi libera utens potestate» [«come se esercitasse un potere assolutamente libero»] (RB 63,2).
In quanto il Cristo rappresenta il Padre, l’abate è tenuto a provare l’umiltà di coloro che gli sono soggetti per introdurli nello spirito di abnegazione totale – è la tradizione unanime del monachesimo degli inizi –; ma in quanto il Cristo è lui stesso umiliato dal Padre, l’abate deve far comprendere che si tratta non di un’opera di pura giustizia, ma d’amore, ed è ciò che traspare soprattutto nel secondo trattato sull’abate, al capitolo 64: «studeat plus amari quam timeri» [«cerchi più di essere amato che di essere temuto»] (RB 64,15); il Figlio non obbedisce al Padre se non nell’amore reciproco, anche se durante la passione questo amore non è più sentito. Tutta la forza del monachesimo è situata in questo rapporto cristologico – che del resto riappare integralmente in sant’Ignazio di Loyola e che è al cuore della testimonianza di san Giovanni. Se san Benedetto ha salvaguardato e tradotto l’ispirazione centrale dell’antico monachesimo per tutta la civiltà occidentale, ha al tempo stesso salvaguardato e tradotto il midollo della teologia giovannea.
E io penso che – malgrado le obiezioni tumultuose della mentalità moderna – solo il mantener ferma l’intuizione teologica originale offre al monachesimo una possibilità di sopravvivenza. In questo campo ci saranno obiezioni senza fine: il mistero divino del Calvario non è unico? Come perpetuarlo in una specie di tecnica umana dell’umiliazione, che rischia di deviare verso una «oppressione» della peggior specie? C’è in ogni caso bisogno di palliativi, di misure precauzionali, di scappatoie. Ma dopo tutto, non si è il Cristo donato alla sua Chiesa, lui stesso, nel suo atto redentore, e non solamente nei suoi meriti – post festum? La Chiesa non è invitata a partecipare alla sua stessa azione9?
4. In questa figura dell’obbedienza è implicata un’intera teologia trinitaria. La regola – diciamolo ancora – non è un trattato di teologia. Se noi non possedessimo le poche pagine di diario che Ignazio ha dimenticato di bruciare, chi indovinerebbe a partire dalle sue Costituzioni la sua profonda mistica trinitaria? Secondo Benedetto, il Cristo è sé stesso – il Salvatore, il Giudice, il Logos –, e a un tempo il rappresentante del Padre. Egli lo rende concreto, vedendo il Figlio si trova accesso al cuore paterno. Il Cristo è anche l’uomo spirituale, la Presenza dello Pneuma nel mondo. Lo Spirito Santo appare, in Benedetto, al termine dei gradini dell’umiltà (RB 7,70) e nella descrizione del comparativo dell’amore, del «magis», che è l’indice della presenza divina: «così ciascuno offra a Dio, spontaneamente, con la gioia dello Spirito Santo, qualche cosa in più della misura impostagli» (RB 49,6).
Il Cristo, dunque, è per noi la concentrazione del mistero trinitario. Un trattato sulla Trinità staccato dalla cristologia affonda in sterili astrazioni. In altre parole, il Cristo è, come in san Giovanni (di cui si conoscono le strette relazioni con i libri sapienziali), il condensato di tutto l’Antico Testamento (per non parlare del Nuovo). Senza la minima esitazione, il Maestro e Benedetto pongono le parole del salterio sulle labbra di Cristo (cfr. il Prologo). Il Cristo è, al tempo stesso, il Verbo e la Sapienza, ma un Verbo fatto carne e una Sapienza che si fa follia della croce.
Qui ci sarebbe un’ultima conseguenza da trarre, cristologica e specialmente giovannea. Si sa che la scala dei dodici gradini di umiltà, descritta espressamente come scala di Giacobbe, conduce l’iniziato, nella regola del Maestro, dalla terra al paradiso, ampiamente descritto nella finale. Benedetto lascia cadere questa finale, lascia cadere anche il paradiso, per sfociare in nient’altro che in questa carità «quae perfecta foris mittit timorem» [«che, perfetta, scaccia il timore »] (1 Gv 4,18). Tutto ciò che il monaco «osservava precedentemente non senza paura, inizierà a compierlo senza sforzo, … non più per timore della geenna, ma per amore di Cristo» (RB 7,68-70). Passaggio stupefacente in una regola che inculca così di frequente il «timor Domini», il timore del Signore. Si tratta del «caro factum est» [«si è incarnato»] compiuto fino all’estremo, in termini tecnici: dell’escatologia realizzata.
Non bisognerebbe reinterpretare, a partire da qui, l’Ufficio divino, che detiene il posto centrale nell’orario monastico? Esso non è per niente una ricaduta nella parola veterotestamentaria, non ancora incarnata, al contrario è presenza del Verbo incarnato nella sua Chiesa, la quale, lodando Dio, entra nello stesso atto redentore. La comunità si sottopone alla regola del Signore, si abbandona, si arrende, in breve obbedisce al movimento esistenziale del Cristo. La Messa sta al centro dell’Ufficio, ma questo centro si irradia su tutte le sue parti, che ne divengono parti organiche, come in Giovanni il grande discorso eucaristico e la preghiera sacerdotale finale non sono che il dischiudersi in parole del mistero eucaristico. E questo dischiudersi non è un’esteriorizzazione, ma al contrario la rivelazione (per gli amici intimi) delle dimensioni nascoste del sacramento. Così, l’Ufficio benedettino è in grado di percorrere in tutti i sensi le dimensioni inesauribili del mistero: Verbum Caro.
In sintesi, mi sembra che una teologia benedettina dovrebbe scavare in profondità e raggiungere le fonti, non solo letterarie o patristiche, ma bibliche che la nutrono. Essa dovrebbe scartare tutto ciò che nella tradizione teologica e spirituale (non parlo della regola!) prima o dopo san Benedetto restringe o fissa a un certo livello storico ciò che è senza tempo o, piuttosto, appartenente a tutti i tempi. Ci si può servire di tutta la tradizione, ma non bisogna arrestarsi a nessuna parte di essa. Neanche alla bella (forse troppo bella) letteratura del dodicesimo secolo. Perché oggi non si tratta tanto di amore delle lettere né di desiderio di Dio, quanto dell’amore di Cristo umiliato fino alla croce e dell’obbedienza a Dio. Oppure, se volete, del desiderio di obbedire. Attraverso gli sbarramenti e i divieti della psicologia e sociologia moderne, si tratta di ristabilire semplicemente le relazioni e le proporzioni cristologiche, in breve la regola del Vangelo, ὁ νόμος τοῦ Χριστοῦ (Gal 6,2), che secondo il Concilio è l’unica regola di tutti gli ordini: «Cum vitae religiosae ultima norma sit Christi sequela in Evangelio proposita, haec ab omnibus institutis tamquam suprema regula habeatur» [«Dato che la norma ultima della vita religiosa è la sequela di Cristo proposta nel vangelo, questa sequela sia tenuta da tutti gli istituti come suprema regola»] (Perfectae caritatis, 2 a).
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Questo saggio ha necessitato di vari interventi redazionali in fase di traduzione, riconoscibili dalle parentesi quadre. Anche l’uso della abbreviazione di RB (Regula Benedicti) è stata inserita per maggior chiarezza davanti ad ogni riferimento a passi della Regola. Le traduzioni delle citazioni latine sono di G. Mussini [N.d.T.].↩
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Pacomio, Catechesi (Lefort 2). [tr. it.: L. Cremaschi (ed.), Pacomio e i suoi discepoli. Regole e scritti, Magnano 1988, p. 208, n. 8].↩
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Teodoro, Catechesi (Lefort 62). [Trad. it.: L. Cremaschi, Pacomio, cit., p. 332, n. 2].↩
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Cfr. J. Gribomont, Les Règles Morales de Saint Basile et le Nouveau Testament, in Studia Patristica 2 (1957) 416ss.↩
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[Si tratta della raccolta denominata Parvum Asceticum o Instituta Monastica, nota in occidente nella trad. latina di Rufino. È reperibile nell’edizione di K. Zelzer in CSEL 86, Wien 1986; tr. it. in G. Turbessi, Regole monastiche antiche, Roma 1990, p. 203].↩
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Cfr. A. De Vogüe, La Règle de saint Benoît. Tome VI: Commentaire historique et critique, Paris 1971, 1321. [In realtà De Vogüe ritiene improbabile questa possibilità (N.d.T.)].↩
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Expositio in Apocalypsin, ad loc. (PL 17, 877). [La citazione dell’autore è stata corretta lievemente in base al confronto con il testo della PL (N.d.T.)].↩
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Commentaria in Apocalypsim, Liber VII, cap. 12 (PL 169, 1049C).↩
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Prevedo un’obiezione pratica fondamentale: l’immagine della paternità dell’abate non può essere ristabilita. L’evoluzione della storia della libertà (Freiheitsgeschichte) è irreversibile: 1) essa comincia nel medioevo: il superiore istituito per il bene della comunità; 2) prosegue evidentemente dopo l’illuminismo e Rousseau; 3) oggi è la competenza che decide: quella di chi è specializzato, o quella (eventualmente) di un collegio, di un consiglio («consilium»: «Convocet abbas omnem congregationem» [«l’abate convochi tutta la comunità»] o si serva solamente del consiglio dei «seniores» [RB 3,1.12]).
Risposta
Il problema si pone nello stesso modo presso i gesuiti e negli istituti secolari (soprattutto!). Si tratta di sapere come un’obbedienza intatta, teologicamente integrale, può essere conciliata con delle responsabilità personali, che dipendono in parte dalla competenza dei singoli.
1. L’obbedienza in senso pieno (nella vita religiosa o in un istituto secolare) non può essere parziale, riguardare la sola vita spirituale, escludendo tutto ciò che concerne il lavoro, la professione, ecc.
D’altra parte, l’obbedienza non può essere meccanica, non può scaricare tutta la responsabilità sul superiore, come in certe regole antiche. Fino a un determinato livello, la responsabilità trova certamente radice nel terreno secolare, il quale ha le sue proprie leggi – che il superiore deve rispettare, fino ad un certo grado. Anch’egli si impegna! Ma ci sono dei limiti: per esempio, lo scandalo provocato, il danno arrecato all’ordine, alla comunità, quanto va a detrimento dell’individuo.
Qui si pone il problema del bene per eccellenza, del valore assoluto dell’obbedienza. L’obbedienza cristiana (alla sequela di Cristo) è in effetti il bene assoluto.
a. In essa c’è di sicuro il bene relativo dell’educazione [che si riceve] nell’obbedienza, la rinuncia. Imparare a fare le cose difficili, ripugnanti: qui l’abate è anche educatore, dottore, paideutes (oppure il maestro dei novizi o il padre spirituale).
b. Ma c’è, inoltre, il bene assoluto, incondizionato dell’obbedienza. È essa che in fondo ha salvato il mondo e non l’apostolato attivo. All’atteggiamento di disponibilità, che essa comanda, non può essere posto alcun limite (a priori). Se la si limita non si è più sulla via di Cristo, la vita religiosa non è più il sacramento che rende presente l’atto redentore nella sua più pura essenza, ma un qualunque tentativo antropologico nel quale l’efficacia esteriore funziona da criterio.
2. Come conciliare tutto ciò?
a. Bisogna esigere ad ogni costo una disponibilità incondizionata, anche nel campo della competenza personale. In questa disposizione la professione viene svolta in spirito d’obbedienza. Esercitare la propria responsabilità, è esercitare l’obbedienza. Il superiore s’impegna nella misura in cui concede fiducia; anche lui è responsabile, non soltanto verso l’inferiore, ma davanti a Dio. E può darsi che in certi casi debba sollevare l’inferiore dai suoi incarichi.
b. La prudenza vuole il suo posto nell’esercizio dell’obbedienza (ma senza minimalismi).
- Per le questioni spirituali, interiori: ritorno al pater pneumatikós, all’autentica esperienza di un maestro spirituale (cfr. il dibattito sull’abbaziato). L’obbedienza non è possibile se non c’è fiducia (come il Figlio ha fiducia nel Padre celeste), altrimenti non si può condurre verso i «difficiliora» o gli «impossibilia» (umanamente): cosa che può essere necessaria dal punto di vista spirituale. Bisogna che chi obbedisce perda, ad un dato momento, la percezione di dominare la situazione. Bisogna che il terreno gli manchi sotto i piedi… (Agostino: «stare super se», a testa bassa). E per questo ci vuole una fiducia fondata obiettivamente nella competenza spirituale del direttore e, da una parte e dall’altra, una certa intelligenza naturale e soprannaturale. Dove non c’è cultura del cuore e dello spirito, la vita religiosa diventa impossibile.\
- Per gli affari temporali: deliberazione comune, con la persona interessata, con altre persone competenti. Ma una volta chiarita la situazione, il superiore deve ingiungere e non solo consigliare… Col coraggio di applicare l’antico adagio: «qui vos audit, me audit» [«chi ascolta voi, ascolta me», Lc 10,16].\
c. Centrare tutta la vita religiosa sulla coscienza viva di essere inseriti nel mistero cristologico, che è un mistero trinitario tradotto in mistero ecclesiologico. I monaci hanno il dovere di renderlo presente e consapevole a tutti coloro che rischiano di dimenticarlo.↩
Hans Urs von Balthasar
Titolo originale
Les thèmes johanniques dans la règle de S. Benoît et leur actualité
Ottieni
Temi
Dati
Lingua:
Italiano
Lingua originale:
FranceseCasa editrice:
Saint John PublicationsTraduzione:
Giulio MeiattiniAnno:
2023Tipo:
Articolo
Fonte:
Monachesimo e teologia. La triplice prospettiva di H.U. von Balthasar. Collana Balthasariana. Lugano: Eupress FTL, 2012, 143–153 [trad. lievemente modificata]
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