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La scommessa degli istituti secolari
Tutti i cristiani sono chiamati alla santità, in virtù del battesimo e degli altri sacramenti come della loro vita di fede sono tutti «persone consacrate a Dio» – il Concilio Vaticano II lo ha sottolineato con la massima enfasi. La santità non è altro che la perfezione, raggiungibile qui sulla terra, dell’amore cristiano gratuito come risposta piena di gratitudine all’infinito amore di Dio donatoci in Cristo: a noi come singoli, a noi come comunità ecclesiale, a noi infine come umanità, il cui fardello di colpe è stato portato sulla croce. Un tale amore gratuito come risposta all’amore divino è vissuto dal cristiano nella gioia, ma anche nella dura rinuncia, nella sequela quotidiana richiesta da Cristo, che significa un quotidiano «portare la croce» (Lc 9,23). Paolo, da una prospettiva postpasquale, spiegherà il radicalismo richiesto dalla sequela come un essere crocifisso – sacramentale ed esistenziale – con Cristo, anzi un morire con lui in funzione di una vita radicalmente nuova, di una «nuova creazione» attraverso una partecipazione anticipata alla resurrezione del Signore.
All’interno di questa esigenza evangelica generale c’è una «elezione», che è Cristo stesso a operare, di singoli a una più stretta comunità di vita, di missione e di azione e questo è un fatto evidente all’interno dello stesso Vangelo e non lo si può negare asserendo che si tratta di una interpretazione umana successiva. L’abbandono di tutto – dei beni esteriori, dei parenti, addirittura della moglie e dei figli (Lc 18,29s.) – così insistentemente sottolineato al momento dell’elezione dei dodici, che inizialmente viene senza dubbio inteso letteralmente e poi esteso a tutti i cristiani come atteggiamento spirituale, è innegabile: si tratta infatti della disponibilità indivisa e libera da ogni legame, al servizio del Vangelo insieme con Cristo servitore, che ha lasciato la sua casa e ora non ha un posto dove poggiare il capo. In questa elezione più ristretta si trova chiaramente insito ciò che la teologia successiva ha suddiviso nei tre consigli evangelici: povertà (come effettiva rinuncia al possesso), in cui è compresa anche la castità (esplicitamente sottolineata ancora una volta in Mt 19,10-12: «Chi può intendere…»), entrambe in diretta obbedienza alle concrete direttive di Cristo (come l’invio a predicare con precise indicazioni di comportamento in Mt 10 e il corrispondente rendiconto in Mc 6,30).
Questo particolare servizio al Vangelo non può essere stato inteso solamente per la prima generazione di discepoli; inoltre, l’elezione a questo servizio precede l’«ordinazione» sacerdotale dei discepoli che diviene attuale solo in connessione con la passione di Gesù (istituzione dell’eucarestia alla vigilia della passione, istituzione della confessione nel giorno di Pasqua: Gv 20,21), perciò una tale elezione può rivolgersi in seguito tanto ai laici quanto ai «chierici». Inoltre, nei vangeli non si trova nulla della forma di vita che questo particolare servizio ha assunto dal quarto secolo in poi come «monachesimo» (e in ciò in cui è sfociato successivamente come «stato religioso»); questa forma con la sua «fuga dal mondo» nel deserto, con il monastero cinto di mura e la sua «clausura», può essere una forma particolare, certamente legittima, del servizio evangelico, sia in una vita di sequela dedita prevalentemente alla contemplazione e con conseguente disponibilità esistenziale alla sequela dei misteri nascosti della sofferenza (per esempio il Carmelo), sia come una sorta di modello visibilmente irradiante di comunità ecclesiale (Benedetto) o infine come punto di partenza dell’azione apostolica nello spirito della sequela (Ignazio di Loyola).
Ma è tuttavia significativo che delle figure di fondatori come Francesco e Ignazio non pensarono affatto in un primo momento alla forma particolare (formatasi dal monachesimo) dell’ordine religioso, bensì – più vicini alle origini evangeliche – a una forma radicale della sequela al servizio della proclamazione del Vangelo in mezzo al mondo. Entrambi i movimenti hanno assunto la forma dell’ordine solo in un secondo momento, quello di Loyola per costrizione. L’intero paradosso evangelico, simile a una spada, percorse in un primo momento la vita di Francesco e di Ignazio, quel paradosso che caratterizzò anche l’esistenza di Paolo: completamente «nel mondo» (Gv 17,11), ma altrettanto completamente «non del mondo» (Gv 17,14). Vivere questo paradosso evangelico senza compromessi da entrambi i lati è diventato – dopo ripetuti tentativi: Angela Merici, Mary Ward, nella Rivoluzione francese P. de Clorivière – nel nostro secolo una forma molto diffusa di esistenza cristiana nella Chiesa (approvata e codificata da Pio XII nella Costituzione Apostolica «Provida Mater» del 1947), e precisamente espressamente sia per i laici che per i sacerdoti diocesani.
Si riconosce subito che il ponte qui gettato è una scommessa particolarmente audace, quasi temeraria, e ad alcuni questa forma di vita appare addirittura come un «ferro di legno». I membri di queste comunità si sono rifiutati di venire considerati come dei religiosi mascherati: sono laici1 o sacerdoti diocesani, e tuttavia si legano (come i monaci e i religiosi) prima temporaneamente, poi «per sempre» davanti a Dio nella loro comunità attraverso una promessa (comunque la si voglia chiamare: «dedizione», «promessa», «giuramento», «voto») al triplice «consiglio» di un’esistenza materialmente povera, casta e obbediente, come fanno i monaci e i religiosi. Se si guarda indietro al Vangelo, il paradosso non è affatto contraddittorio, ma è solo la radicalità di ciò che Gesù esige da tutti i suoi discepoli: un radicale «uscire» dal mondo per scommettere tutto su di Lui, per essere poi inviati con il nuovo annuncio dal cielo tanto più radicalmente «dentro» il mondo: «andate in tutto il mondo» (Mt 28).
In breve, un paio di caratteristiche di questi istituti secolari – Weltgemeinschaften [«comunità nel mondo», «comunità secolari»], come li si chiama preferibilmente in tedesco. Anzitutto essi sono, anche se la cosa può sorprendere, delle vere comunità e non solo dei vaghi ammassi di singoli. Questo potrebbe essere di particolare importanza oggi per le comunità secolari di sacerdoti, per parlare prima di loro, dato che i sacerdoti diocesani dopo la loro formazione (molto problematica in alcuni paesi e in alcune diocesi) vengono proiettati in una solitudine difficile da sopportare – la vecchia canonica esiste solo in rari casi – e incontrano serie difficoltà a operare in un ambiente in parte scristianizzato e a trovare un sostegno nei confratelli anche loro sovraccarichi. Le comunità secolari di sacerdoti, nonostante la loro diversità, hanno evidentemente questo in comune, che offrono ai loro membri, sulla base della loro solida spiritualità e anche del «sentirsi al sicuro» dei singoli in una comunità di persone che la pensano allo stesso modo, un sostegno che altrimenti può essere trovato solo negli ordini religiosi, anzi, a causa della crisi in cui versano parecchi ordini grandi e piccoli, spesso si trova con maggior sicurezza negli istituti secolari che in questi ultimi. Se si osserva l’attività estremamente benefica della maggior parte delle comunità secolari di sacerdoti in questo tempo, allora gli aspetti positivi superano eventuali dubbi che possano sorgere sul fatto che il concetto di comunità secolare si adatti in primo luogo ai laici, e quindi si possa applicare il concetto ai sacerdoti solo in modo piuttosto analogico. Ma anche lo sguardo retrospettivo ai primi discepoli e a Paolo, che voleva guadagnarsi la vita con un lavoro secolare, quello di fabbricante di tende, può dissipare tali dubbi.
Per quel che riguarda i laici, la prima cosa che colpisce è che ognuno di loro lavora nella sua particolare professione – come medico o avvocato, come infermiera o assistente sociale, come architetto o giornalista ecc. – per lo più in un ambiente di fede diversa o non credente. Opere comuni come scuole, ospedali, come vengono gestite dalle congregazioni, nelle comunità secolari non esistono o solo in casi del tutto eccezionali. Nella maggior parte dei casi i membri delle comunità lavorano in posti che sono poco o per nulla accessibili ai sacerdoti. La loro posizione esposta richiede come contrappeso una formazione religiosa accurata (che può benissimo procedere di pari passo con quella professionale), ma allo stesso tempo un costante sostegno da parte della comunità, del suo spirito e della sua figura concreta che può avere aspetti diversi: vivere e poter pregare insieme in piccoli gruppi, incontri regolari per rigenerarsi, per il dialogo fraterno e per esercizi spirituali, ecc. Si manifesta qui una legge fondamentale della vita ecclesiale: quanto più una missione cristiana espone una persona alla solitudine, tanto più indispensabile è che la grande comunità ecclesiale si concretizzi per lui in una comunità ben definita. Non solo perché nel gruppo la povertà evangelica assume forme ben regolate (queste potrebbe darsele anche il singolo) e neppure solo perché la castità ha bisogno di essere accolta in una comunità (in generale i voti isolati di verginità sono da sconsigliare), ma soprattutto perché l’obbedienza ecclesiale e quindi la missione può essere vissuta solo in una comunità dove qualcuno ha autorità di comando. Questi, come in alcune comunità, può essere il vescovo, sebbene raramente avrà tempo di seguire nei dettagli la vita di ogni membro; egli delegherà perciò qualcuno che normalmente non appartiene alla comunità. Nella maggior parte delle comunità l’autorità di guida spetta a un membro che per le decisioni importanti consulta un consiglio o l’intera comunità e, a seconda degli statuti, detiene questa autorità per un periodo più o meno lungo.
Quel che è più stimolante in questa forma di vita, non è tanto la castità (che è dato incontrare anche per ragioni mondane e che quindi non risalta come testimonianza di una sequela più immediata del Cristo), né la povertà, che molti cristiani praticano spesso in modo più radicale per i più diversi motivi sociali e teologici, quanto piuttosto lo svolgimento della professione mondana conformemente a un’obbedienza intesa teologicamente. Questa trasforma l’azione mondano-umana, il «ruolo» sociale in un compito di Cristo (mediato dalla Chiesa), in una missione che viene assunta in questo luogo mondano, nella sua qualità e durata, come l’obbedienza lo determina. Che qui sorgano problemi e tensioni particolari tra la responsabilità mondana e l’obbedienza è una questione secondaria, che sarà trattata in seguito; innanzitutto va riconosciuta come una novità la nuova forma di «incarnazione» della missione soprannaturale (mediata dalla Chiesa) qui realizzata nelle strutture di questo mondo. La vita di missione nelle comunità secolari non ha più nulla in comune con la fuga mundi che, almeno esteriormente, iniziò con il monachesimo – anche se, vista più in profondità, questa «fuga» fu interpretata fin dall’inizio (Origene, Antonio d’Egitto) come una lotta a favore della Chiesa. Certo, il triplice consiglio evangelico pone colui che lo segue sotto la croce, ma la croce è l’esatto opposto della fuga dal mondo. Perciò gli atteggiamenti solo apparentemente negativi della povertà e della castità si discostano di molto da un’ascesi (ad esempio quella del monachesimo orientale) che fugge dal possesso e dal sesso: la povertà cristiana è un «diventare povero con» Cristo «per arricchire molti» (2 Cor 6,10), la castità è la sequela di Cristo e di Maria per una maggiore fecondità (eucaristica) per il regno di Dio.
Una volta compreso questo principio, si può ammettere che la vita delle comunità secolari è veramente esposta, una sorta di atto di equilibrismo che nella sua radicalità, nella difficoltà di mantenerlo nel tempo, non è accessibile a tutti, che probabilmente, nel complesso, richiede più di quanto richieda una vita dietro le mura del monastero, per quanto faticosa possa essere anche questa nel corso degli anni. Il «non di questo mondo» deve essere vissuto in modo altrettanto radicale quanto l’«in questo mondo», cosa che non può essere sostenuta solo attraverso regole protettive, ma solo in un continuo rinnovamento dello spirito, in una preghiera viva con autentica contemplazione, nello spirito di una consapevole abnegazione. Una comunità secolare può sopravvivere molto meno di comunità più istituzionalizzate a una perdita di spirito interiore. Questo spirito vivo deve essere nutrito contemporaneamente dall’interno, dal centro vivo della comunità, e dall’esterno, dalle necessità e dai bisogni quotidianamente sperimentati del mondo in cui si lavora. Solo nello spirito evangelico sono sostenibili le tensioni inerenti a questa forma di vita, in particolare la tensione tra l’obbedienza ecclesiale non ridotta (con la corrispondente apertura, disponibilità, rendiconto di coscienza) e la propria responsabilità nella professione mondana, assunta sempre in obbedienza2.
Poiché nelle comunità secolari si tratta così primariamente dello spirito, si comprende da sé che negli istituti sono possibili e prevedibili accentuazioni anche molto diverse, soprattutto per quel che concerne la comprensione della povertà e dell’obbedienza, poiché per quel che riguarda la castità per il Vangelo, essa è univoca per tutti anche nella forma in cui le si dà espressione con la propria vita. Ritornando alla povertà, invece, ci si può chiedere se la «secolarità» delle comunità non esiga che ogni membro amministri da sé i propri redditi e il proprio patrimonio (certo in uno spirito più precisamente definibile e con obblighi di contribuzione alla comunità), oppure se il carattere di una comunità ecclesiale induce a pensare che ciò che i membri portano con sé e i loro guadagni appartengono alla comunità che dà a ciascuno ciò di cui ha bisogno nel suo stato professionale. Gli svantaggi della prima soluzione consistono nel fatto che alcuni membri possono «permettersi» delle cose (per esempio le ferie) che sono negate ad altri, gli svantaggi della seconda soluzione consistono in un certo accumulo di beni nella comunità, che dà ai singoli la sensazione che «uno» possa «permettersi» questo o quello, delle cose insomma magari superflue, che metterebbero in dubbio la povertà. A questo si può ovviare solo con una severa regola secondo cui la comunità devolve periodicamente tutto quanto non è strettamente necessario per vivere a persone o paesi bisognosi o a opere di beneficenza. Delle tensioni da sopportare nell’obbedienza si è già parlato. Si minimizzerebbe pericolosamente se si escludesse completamente l’ambito di lavoro secolare del membro dalla sfera dell’obbedienza e lo si lasciasse interamente alla sua responsabilità personale, ma d’altra parte la competenza di un superiore non può estendersi ai dettagli del campo specialistico di un singolo. Qui devono essere trovate vie di mezzo che da un lato garantiscano l’autentica disponibilità dei membri verso la comunità, dall’altro escludano ogni interferenza arbitraria della comunità nella sfera d’azione dei singoli. Tali mediazioni non sono solo individuabili per il caso singolo, ma possono essere ampiamente formulate come linee guida generali3.
Le comunità secolari si stanno forse dimostrando all’altezza nella vita ecclesiale attuale e rappresentano un’opportunità per il futuro della Chiesa? A questa domanda non si può dare una risposta banale già per il solo fatto che queste comunità sono essenzialmente tenute a una grande discrezione (che non è necessariamente una segretezza da carbonari), perché i singoli membri possono svolgere il loro lavoro solo a condizione di non essere bollati nel loro ambiente come «religiosi mascherati» o «infiltrati della Chiesa». Nel seguito, avendo già detto il necessario sulla grande, pressoché irrinunciabile utilità delle comunità secolari di sacerdoti nell’odierna situazione della Chiesa, ci interroghiamo soprattutto sulla sorte delle comunità laicali. A volte si sentono dei giudizi pessimistici sulla forza di irradiazione delle comunità laicali. Ma a questo proposito vanno fatte tre osservazioni. Innanzitutto, come appena detto, che il loro lavoro svolto in silenzio non può essere statisticamente rilevato. Poi, che nei numerosi paesi dove la Chiesa con tutte le sue istituzioni pubblicamente note, come ordini e congregazioni, è esposta alla persecuzione statale, e queste comunità conosciute, se ancora tollerate, vengono rinchiuse in riserve, così che è loro impedito ogni effetto di più ampia portata (case di riposo, manicomi e simili), solo le comunità secolari – per lo più mantenendo la massima discrezione – possono garantire un certo apostolato, come è proprio dello stato dei consigli evangelici. Ci sono esempi sconvolgenti al riguardo. La terza cosa da dire a questo proposito potrebbe essere la più importante. In diversi paesi ci sono grandi «movimenti» all’interno della Chiesa, che radunano intorno a sé molte persone, soprattutto giovani, e come «Chiesa dal basso» (senza risentimento verso la gerarchia) costituiscono uno dei maggiori fattori di speranza per il futuro della Chiesa. Fa parte dell’essenza di questi movimenti che vivano primariamente dello Spirito Santo, della volontarietà e spontaneità dei partecipanti (spesso non c’è nemmeno una vera e propria «appartenenza»). Ma si è visto che questi grandi movimenti alla lunga non possono sussistere senza un nucleo radicalmente impegnato e di conseguenza anche istituzionalizzato, nucleo che poi assumerà quasi spontaneamente il carattere di un istituto secolare. Che poi essi si dichiarino ufficialmente ed espressamente istituti secolari e come tali vengano riconosciuti, è probabilmente una questione secondaria. Benché questo fosse espressamente auspicato da Pio XII in un apposito scritto, la prassi ecclesiale potrebbe essersi in qualche modo evoluta da allora. I centri di questi movimenti che in effetti sono strutturati secondo il modello degli istituti secolari, possono avere dei motivi per non volersi dichiarare come tali, per non mettere in pericolo l’unità con i numerosi collaboratori. D’altro canto è comprensibile che la Chiesa debba e voglia mantenere un controllo su questi centri che vivono secondo i consigli evangelici. Se questi ultimi possiedono un autentico senso ecclesiale, dovrebbero essere trovate vie per unire organizzazione e necessaria libertà.
Gli istituti secolari sono una forma molto attuale di esistenza ecclesiale vivente e un esempio di ciò cui il Concilio mirava con l’«apertura al mondo». Tuttavia si considerano come una forma di esistenza ecclesiale tra altre. Non vogliono né possono sostituire le congregazioni e gli ordini contemplativi e attivi, né assorbire in sé lo stato dei laici sposati. Perciò si può porre alla fine una domanda molto difficile: la forma specifica di vita secondo i consigli che gli istituti secolari vogliono realizzare non ha forse certi limiti interni, suggeriti ai membri delle comunità secolari, nonostante il loro pieno impegno nel «mondo secolare», a motivo del carattere dei consigli? Tali limiti potrebbero diventare visibili laddove si trova la zona di conflitto tra povertà evangelica (e le altre «beatitudini» del sermone della montagna) ed esercizio del potere mondano. Si deve aspirare a ogni costo alle posizioni più influenti e di potere, con il pretesto di poter fare di più da lì per il Regno di Dio? O questo non getterà quasi necessariamente una cattiva luce sulla comunità a cui si appartiene e la renderà sospetta di essere una specie di massoneria cristiana? Si deve aspirare a posizioni in cui si gestisce molto denaro, da cui quindi si possono effettuare azioni economiche significative? Tali domande non sono affatto facili da risolvere, perché le comunità secolari sono ora seriamente implicate nelle strutture mondane, e in queste ci sono transizioni impercettibili dall’ambito di azione ristretto a quello più ampio, e perché i cristiani sono chiamati più che mai ad aiutare a risolvere anche le questioni planetarie dell’umanità. E sempre di nuovo emergono figure cristiane che sanno ricoprire in modo credibile posizioni politiche ed economiche di altissima responsabilità con una mentalità cristiana completamente pura. La domanda è quindi solo se tali personalità non farebbero meglio a essere dei singoli laici nella Chiesa – naturalmente sostenuti e supportati dalla vasta comunità ecclesiale – piuttosto che membri di istituti secolari, obbligati a essi nell’obbedienza, cosa che almeno per gli estranei può screditare l’istituto specifico. C’è tanto lavoro nell’intimo tessuto della società umana che deve essere svolto in maniera modesta e affidabile, lavoro in cui risplende lo spirito delle beatitudini con quella stessa immediatezza con cui dovrebbero diffonderlo persone consacrate. Viviamo in un mondo in cui il regno di Dio non può essere edificato in modo visibile né organizzativo, nel quale la Chiesa rimarrà una realtà in combattimento contro le potenze superiori del mondo, in un combattimento forse sempre più segnato da durezza e martirio.
- Se si vuole suddividere a ogni costo la Chiesa in stati, allora i membri degli istituti secolari appartengono, insieme con i religiosi e i membri delle congregazioni, allo stato dei consigli; ma questo non impedisce loro di essere dal punto di vista sociologico dei laici, dato che ogni laico ha il diritto di fare dei voti privati e di aggregarsi a una comunità. Ma la separazione dei laici dai sacerdoti e dai religiosi è senza dubbio problematica, cfr. il mio articolo «Vi sono laici nella Chiesa?», in Nuovi Punti fermi, Jaca Book, Milano 1980, pp. 155-171.↩
- Quanto una simile tensione sia connessa anche alla vita religiosa, lo si vede chiaramente dalle lettere e dalle istruzioni di sant’Ignazio ai suoi gesuiti, nelle quali raccomanda loro, per incarichi di cui lui, come generale, non può o non ha ancora potuto conoscere i dettagli, di decidere nello spirito dell’obbedienza (e della regola) secondo la propria responsabilità.↩
- La sintesi cui mirano gli istituti secolari sarebbe messa a rischio, da un lato, se si rinunciasse del tutto ai voti con il pretesto che l’emissione di particolari «voti» separerebbe i membri dallo stato laicale, poiché la «consacrazione» sarebbe già implicita nel battesimo; dall’altro lato, se nella forma di vita ci si appoggiasse eccessivamente a quanto è consueto negli ordini e nelle congregazioni (fino a prevedere un abito specifico, forse indossato solo all’interno della casa comunitaria). Il primo estremo porterebbe probabilmente a una dissoluzione interna della comunità, tanto più rapidamente quanto più si rinuncia a un’obbedienza ordinata, prendendo decisioni solo attraverso discussioni generali e votazioni a maggioranza. Il secondo estremo avrebbe maggiori possibilità di sopravvivenza, ma in situazioni di persecuzione sarebbe messo a rischio in modo simile agli ordini religiosi.↩
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Hans Urs von Balthasar
Titolo originale
Das Wagnis der Säkularinstitute
Ottieni
Temi
Dati
Lingua:
Italiano
Lingua originale:
TedescoCasa editrice:
Saint John PublicationsTraduzione:
Elio GuerrieroAnno:
2025Tipo:
Articolo
Fonte:
Strumento internazionale per un lavoro teologico Communio 57 (Milano, 1981), 74–82 (tr. riveduta dalla Comunità San Giovanni per questa edizione elettronica)
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