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Il Verbo si condensa

Hans Urs von Balthasar
Titolo originale
Das Wort verdichtet sich
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Dati
Lingua:
Italiano
Lingua originale:
TedescoCasa editrice:
Saint John PublicationsTraduzione:
Comunità San GiovanniAnno:
2025Tipo:
Articolo
Nei Padri greci ricorre l’espressione «ho Logos pachynetai (o: brachynetai)»: incarnandosi, il Verbo di Dio – in sé onnipresente e spirituale – assume una figura limitata, densa, impenetrabile1; questa drastica Incarnazione, che per noi diviene densa e opaca, dovrebbe essere, secondo il cristiano che comprende spiritualmente, nuovamente dissolta nello Spirito originario. Ma a questa versione unilaterale e spiritualistica si aggiungono, in termini cristiani, due altre considerazioni: il cristiano non dovrebbe compiere entrambi i movimenti del Verbo di Dio: condensare e concretizzare lo spirituale incarnandolo autenticamente – e spiritualizzare il carnale comprendendo più profondamente il senso dell’Incarnazione?2 E affinché qualcosa del genere sia possibile, Gregorio di Nissa in particolare elabora il pensiero secondo cui la carne del Logos incarnato, una volta risorta, sia stata liberata dalla sua densità e limitatezza e «mescolata» come una goccia di vino nell’illimitatezza della divinità, senza naturalmente perdere la sua umanità3.
Questi pensieri non dovrebbero chiarirsi veramente solo se pensati insieme al mistero dell’Eucaristia? Senza di essa, l’idea di un Logos che si contrae dalla sua universalità cosmica, limitandosi a un singolo corpo di carne, avrebbe qualcosa di spaventoso: com’è possibile che i frammenti e i presagi della ragione universale (logoi spermatikoi), accessibili agli uomini di tutti i tempi e luoghi, si siano davvero concentrati e cristallizzati nella persona di Gesù, al punto da essere accessibili solo qui e da nessun’altra parte? Com’è possibile, se Gesù Cristo deve invece essere l’ultima e quindi anche la più universale e definitiva rivelazione della sapienza e dell’amore di Dio Padre? Ma come si concilia allora il restringimento a questa corporeità concreta – «chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue…» – con la decisiva espansione universale?
Un’altra dottrina patristica, che si è mantenuta fino al Medioevo, ci fornisce una chiave per la soluzione: poiché l’eterno e preesistente Verbo di Dio assume figura umana, tutta la natura umana e ogni singolo partecipante a essa sono concretamente coinvolti e interpellati in questo evento4. «il Verbo si fa carne» è il passo finale del dialogo di Dio con un popolo limitato nell’Antica Alleanza: «carne» significa essere umano (in generale), così nell’Incarnazione del Verbo solo l’intera umanità può diventare interlocutore di Dio. E se già a livello naturale non c’è divenire di un nuovo uomo senza che egli riceva da altri uomini ciò che appartiene all’essere umano, senza «reciprocità di coscienza», questa legge antropologica fondamentale si intensifica nel caso dell’Incarnazione del Verbo di Dio in una ricezione universale del proprio da tutti gli uomini – e questo «proprio» di ciascuno ora non è più solo il suo modo particolare di essere uomo, ma soprattutto il suo modo deficiente, peccaminoso di condurre o non condurre il dialogo con Dio, di vivere o rompere l’alleanza di Dio con gli uomini5. In questa assunzione del nostro nell’Incarnazione si compie finalmente la vera reciprocità dell’alleanza tra Dio e uomo; anche se questa assunzione della nostra colpa da parte del Figlio di Dio è la più pura di tutte le grazie, egli ce la accrediterà e ripagherà come un dono e un beneficio da noi fatto a lui, ridonandoci ciò che ha ricevuto da noi – nell’«admirabile commercium» – trasformato6.
Con ciò diventa già visibile che il fondamento di ciò che sarà l’Eucaristia sta nell’evento dell’Incarnazione. Dobbiamo però scoprirlo ancora più da vicino guardando all’atteggiamento del Figlio che si lascia incarnare dal Padre attraverso lo Spirito Santo. È il Padre che vuole riconciliare con sé il mondo intero nel Figlio (2 Cor 5,18), quindi in realtà ha in mente qualcosa con colui che deve diventare uomo che va ben oltre la capacità di un uomo. Così il Figlio, con tutta la sua genuina volontà di corrispondere all’intento del Padre, alla fine può solo – oltre la forza umana – lasciarsi disporre nella volontà del Padre7. Più importante, per così dire, del fatto che l’Incarnato dia tutto il suo ai suoi simili, è che egli si abbandoni e si consegni alle mani del Padre che lo donano, lo distribuiscono, lo disperdono all’infinito. Solo quando il Padre, come offerente della tavola eucaristica, fa avvenire la meravigliosa moltiplicazione del pane nell’umanità del Figlio, il miracolo diventa definitivamente vero e compiuto per tutta l’umanità.
Abbiamo detto: la donazione di sé nell’Incarnazione è il fondamento dell’Eucaristia, non è ancora essa stessa. Le conseguenze dell’assunzione del nostro essere vengono portate fino in fondo solo nella Passione: qui si mostra finalmente quali effetti ha l’assunzione della colpa universale nella coscienza di Gesù, nella pena giudiziaria della colpa, laddove il Dio giudice vede questa colpa nel rappresentante di tutti non solo in un «come-se», ma in maniera del tutto reale; qui essa viene portata alla luce, «confessata»8, punita con la «penitenza» dell’abbandono di Dio, e riceve, nella Risurrezione a Pasqua, l’assoluzione universale. La condensazione della colpa nell’unico «corpo portatore di peccato» («ho Logos pachynetai» cfr. Gv 1,29; 2 Cor 5,14.21; Gal 3,13; Ef 2,14-16) è allo stesso tempo l’espansione di questo unico uomo archetipico e «ultimo» (cfr. 1 Cor 15,45ss.) all’universale; in questo senso, la sua Risurrezione significa sia il capovolgimento che la semplice continuazione logica di ciò che è iniziato nell’Incarnazione e nella Passione: colui che «ha potere su ogni carne» (Gv 17,2), il potere di accogliere tutti in sé, ora ha il potere di donarsi corrispondentemente a tutto ciò che ha rappresentato, in un’Eucaristia cui non sono imposti limiti: né dall’esistenza personale di Gesù «in Cielo» dopo la Risurrezione9, né dalla glorificazione dell’intera creazione dopo la Parusia, poiché in eterno il Figlio incarnato è il medium eucaristico attraverso il quale parteciperemo alla vita trinitaria di Dio10. Comunicandosi a noi come un concretissimum – la corporeità sanguigna di Gesù – egli si dà a noi allo stesso tempo come ciò che ci è più intimo, come il prototipo dell’umanità, come ciò che desideriamo di più, come un essere umano che non costituisce più uno schermo finito davanti all’infinito, al quale vorremmo aprirci, ma che è «la via», «la porta» per eccellenza (Gv 14,6; 10,7); e non è un’umanità che, con la sua santità, è per sempre separata dalla nostra condizione di peccatori, ma che, portando la nostra colpa – vediamo il segno dei chiodi nelle mani, nei piedi e nel fianco – fornisce la prova che proprio in queste ferite siamo accolti e definitivamente a casa.
Si potrà dire solo questo: l’ultima Eucaristia del Figlio dopo la Parusia – cioè alle «nozze dell’Agnello» (Ap 19,7) – sarà un atto di generazione e donazione infinito in ogni senso, perché solo allora la Chiesa-Sposa sarà diventata la definitiva «sposa dell’Agnello» (Ap 21,9). Fino ad allora l’Eucaristia rimane legata al regime sacramentale intra-temporale; non perché (come si credeva spesso) per Gesù ci sarebbe da superare una distanza tra l’esistenza in cielo e la presenza sulla terra, ma perché noi stessi nella nostra temporalità abbiamo bisogno di «momenti forti», di dedizioni legate a eventi, che per così dire incidono tacche nello scorrere uniforme del tempo, in cui possiamo porre il nostro piede nel cammino verso l’eternità. Voler superare questa «economia» – per esempio, perché Cristo è comunque onnipresente anche come uomo glorificato e una presenza «particolare» eucaristica sarebbe superflua – sarebbe stolto e ingrato verso Dio. Altrettanto si potrebbe dire che un’assoluzione sacramentale sarebbe superflua, perché dalla croce l’assoluzione è comunque generalmente presente; o il battesimo, perché la grazia di Cristo è comunque presente («trascendentalmente») per ogni uomo, e così via.
Infine, non bisogna mai trascurare il carattere trinitario dell’Eucaristia. Il Padre, come detto, è l’offerente, e il Figlio è il pasto regale distribuito da lui. Il Figlio stesso lo ringrazia per questo, e noi lo facciamo con lui nella preghiera di ringraziamento (eucharistia), che nel canone della messa si rivolge esclusivamente al Padre. Lo Spirito, invece, come sempre, è colui che realizza, che rende presente. In questo è anche l’unificatore: come forma e manifesta l’unità dell’atteggiamento di donazione di Padre e Figlio, così compie l’unificazione tra Cristo e la Chiesa (e noi, in quanto siamo membri della Chiesa). E come in Dio è il più soggettivo (l’unione d’amore) e il più oggettivo (la testimonianza dell’amore tra Padre e Figlio), così è anche in questa unificazione entrambe le cose: il più soggettivo, come l’amore eucaristico di Dio effuso nei nostri cuori, in cui noi come fratelli e membra del Figlio gridiamo «Abba, Padre», e il più oggettivo, poiché – come un tempo formava l’obbedienza del Figlio incarnato come regola divina – ora forma l’ordine sacramentale e liturgico dell’istituzione Chiesa, per trasmetterci nella forma vivente la vita formata.
- Cfr. Origene, Peri Archon I,2, 8: «Il Figlio di Dio entrato nella forma brevissima del corpo umano» manifesta tuttavia in esso «l’immensa e invisibile grandezza del Padre». La formula è propriamente di Gregorio di Nazianzo, Or. in Epiph., PG 38, 31 3B. Massimo il Confessore la commenta negli Ambigua, PG 91, 1285C-1288A. Cfr. Id., Kosmische Liturgie, 21961, pp. 518-520.↩
- Così, sulla scia di Evagrio, Massimo il Confessore, Cent. gnost. 2, 37: «nel cristiano attivo il Logos si condensa a causa delle virtù; nel contemplativo il Logos si assottiglia e diviene quel che era dall’inizio: Verbo di Dio» (PG 90, 1141CD).↩
- Spesso, nell’Antirrh. c. Apolin. si parla di questa «krasis», che non significa un fondersi l’uno nell’altro, ma, secondo il linguaggio stoico, un compenetrarsi reciproco di due sostanze con la conservazione della loro essenza (ed. E. Müller, Leiden 1958). Similmente, più tardi, in Scoto Eriugena.↩
- Sul fatto che questa dottrina non abbia niente a che vedere con il «platonismo» e sia giustifica principalmente dalla teologia biblica, cfr. R.M. Hübner, Die Einheit des Leibes Christi bei Gregor von Nyssa, Untersuchungen zum Ursprung der ‘physischen’ Erlösungslehre, Leiden 1974.↩
- M. Nédoncelle, Le Moi du Christ et le Moi des hommes à la lumière de la réciprocité des consciences, in Bouessé-Latour, Problèmes actuels de Christologie, Parigi 1965, pp. 201-226.↩
- Blondel dice del Cristo: «La coscienza della sua umanità risulta da tutte le nostre coscienze… E se mi chiedete come mai questa umanità del Cristo non è assorbita dalla luce del Logos, rispondo che sono tutte le nostre umanità che servono da schermo alla sua; che se noi siamo uomini per lui, egli lo è per noi; che egli è alla lettera il Figlio dell’uomo; e che se la creazione ha la sua consistenza nella conoscenza perfetta e nella volontà amorosa del Cristo, Cristo ha il suo essere particolare come essere contingente attraverso il convergere universale di tutta la vita e di tutto l’essere creato in lui» (Lettera al barone von Hügel del 12/2/1903, in Marlé, Au coeur de la crise moderniste, Parigi 1960, pp. 135s.).↩
- Questo ci solleva dalla necessità di attribuire a Gesù una conoscenza o una previsione superiore a quanto doveva compiere attivamente. Dove l’obbedienza è la virtù fondamentale, il non sapere può essere più importante del sapere, nella misura in cui consente una più profonda abnegazione di sé.↩
- Per questo aspetto cfr. A. von Speyr, Die Beichte, Einsiedeln 1960 [tr. it. La confessione, Jaca Book, Milano 2018].↩
- Così che, a motivo della presenza eucaristica sulla terra, egli debba in qualche modo «cambiare luogo» o esercitare un’azione a distanza.↩
- K. Rahner, «Die ewige Bedeutung der Menschheit Christi für unser Gottesverhältnis», in Schriften zur Theologie III, 1956, pp. 47-60.↩