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Adrienne von Speyr e il Sacramento della Confessione
Adrienne von Speyr ha posseduto in grado straordinario il carisma: della profezia nel senso inteso da San Paolo e San Tommaso: il dono dello Spirito Santo non solo di penetrare con lo sguardo cose divine, ma anche di saperle esporre, nonostante la loro profondità ed ampiezza, in forma a tutti comprensibile, ed utile per la Chiesa. Delle circa sessanta opere da lei dettate al suo confessore, sono stampate ed acquistabili1 tutte quelle che riguardano l’interpretazione di scritture bibliche o di temi teologici, come pure l’autobiografia, scritta di suo pugno.
Non vi è questione dogmatica, dalla dottrina trinitaria alla cristologia e all’ecclesiologia, dalla dottrina dei Sacramenti e della vita cristiana all’escatologia, su cui Adrienne non abbia espresso non solo qualcosa di profondo, ma spesso anche di innovativo ed utile per il progresso della teologia. Ma quanto poco la verità cristiana può ridursi a «sistema» perché Dio, il sempre-più-grande, fa saltare ogni sistema, altrettanto poco la visione del mistero divino di Adrienne von Speyr poteva ricondursi a un ordine unilineare ad onta della sobria trasparenza della sua dizione: la Trinità divina tutto penetra e governa, ma accessibile lo è solo attraverso il mistero di Cristo e della Chiesa e quindi attraverso la copiosa ricchezza degl’incontri di Dio col mondo, col peccato, con la conversione, attraverso l’incarnazione, croce e resurrezione del Figlio, e attraverso tutti gli aspetti della vita cristiana.
Così la teologia di Adrienne resta policentrica; eppure vi sono nella sua visione d’insieme certi punti magnetici attorno ai quali vengono ad ordinarsi di lontano vari aspetti, e che divengono visibili in tutta la loro estensione: uno di questi punti è la confessione. Non invano la bambina cresciuta in una famiglia protestante, e più tardi la studentessa di medicina e la dottoressa che soltanto a trentotto anni conobbe il prete cattolico che prestò orecchio alla sua problematica e l’accolse nella Chiesa, aveva sino allora cercato senza posa quella confessione cristiana in cui la confessione possiede la sua vera forma, corrispondente al Vangelo. Aveva cercato tutto questo in ogni sorta di setta, in movimenti in cui si entra attraverso una pubblica confessione dei peccati per vivere poi da «convertiti»; presso medici che incorporavano la confessione dei peccati nella struttura stessa dei loro metodi terapeutici; tentò anche – spesso invano – di confessare la sua colpa ad altre persone; ma incontrò ciò che le era sempre mancato soltanto quando entrò nella Chiesa cattolica: l’autorità, conferita dal Signore ai suoi ministri, di perdonare i peccati. Questa forma piena di confessione non fu tuttavia per lei solo il punto finale della sua ricerca, bensì anche il punto di partenza per una visione teologica d’inaudita ricchezza, che nel suo libro La Confessione (tradotto in quattro lingue) trova la sua espressione più densa, ma che bisogna tuttavia integrare tramite altre sue opere.
Non analizzeremo qui in dettaglio il libro – poiché la molteplicità degli aspetti trattati esorbiterebbe dai limiti di un articolo –, e lasceremo da parte ciò che in esso concretamente si dice sui differenti tipi di confessione (confessione di conversione, confessione generale, confessione devozionale ecc.), sui singoli momenti durante lo svolgimento della confessione, sul penitente, sul confessore e il suo ufficio, sulla vita dalla confessione, per evidenziare solo tre dei pilastri che reggono tutto l’insieme, e in cui si palesano l’originalità e la solidità della teologia di Adrienne.
La confessione come atteggiamento
In molte delle sue opere emerge il termine da lei coniato di atteggiamento di confessione (Beichthaltung). Lo si può descrivere come la pronta disposizione abituale ad aprirsi senza riserve, ove ciò abbia un senso e le circostanze lo esigano. Questa pronta disposizione è molto vicina all’«indifferenza» ignaziana, pronta a metter tutte le carte in tavola davanti a Dio, o all’affermazione giovannea: «Chi opera la verità (a-lètheia = non-occultamento), viene alla luce» (Gv 3,21), o quella paolina «Tutto ciò che si manifesta è luce» (Ef 5,14). Così che il contrario di questo atteggiamento, ossia il peccato, è definito menzogna (Gv 8,44). L’aprirsi non è atto fine a se stesso, ma riceve il suo significato nel dono oblativo, nell’Amore. Essere trasparenti l’uno per l’altro significa donarsi reciprocamente con tutto ciò che è proprio.
Dunque il motivo ultimo dell’atteggiamento di confessione può venir trovato nella vita trinitaria di Dio: «Dio sta dinanzi a Dio nell’atteggiamento che a Dio si conviene. Per analogia esso può venir denominato atteggiamento di confessione, perché è l’atteggiamento in cui Dio si mostra come è, e da esso nasce la situazione, ogni volta nuova, della visione e dell’amore… Perché Dio non è un essere stagnante, ma è vita eterna, in accadimento. Per Dio è beatitudine svelarsi davanti a Dio… Gioia della comunicazione reciproca, che abbraccia ambedue le cose: il manifestare e ricevere il manifestato». Di questo mistero trinitario noi siamo a conoscenza, però, soltanto attraverso il perfetto atteggiamento di confessione del Figlio incarnato dinanzi al Padre: «Il Padre ama il Figlio e gli manifesta tutto quello che fa» (Gv 5,20), e il Figlio dice «Tutte le cose mie sono tue» (Gv 17,20). Nel Figlio ci è possibile vedere come il suo (adrienniano) atteggiamento di confessione, la sua (ignaziana) obbedienza e il suo (giovanneo) amore nei confronti del Padre sono una cosa sola. Gesù farà parte ai suoi questo atteggiamento di fondo in quanto li fa partecipi del suo rapporto di Figlio, del suo esser generato dal Padre; in quanto prescrive loro un amore reciproco che dovrà esser modellato sulla sua totale oblazione (1 Gv 3,16), e, se sono caduti nel peccato e nella menzogna, dona loro il sacramento della confessione che dà loro la possibilità di aprirsi a tal punto ad un loro simile, dotato di autorità divina nello Spirito Santo, da potere, insieme a tutta la loro oscurità, riemergere nella luce di Dio. E con ciò siamo giunti di già nella sfera del secondo aspetto di questa teologia della confessione, che ne costituisce al tempo stesso il centro. È la teologia della Croce.
L’archetipo della confessione
Se il peccato è menzogna e pertanto si nasconde davanti alla verità di Dio (Gn 3,9-10), «chiunque fa il male, odia la luce e non viene alla luce» (Gv 3,20); ma se Gesù in croce porta su di sé tutto il peccato del mondo e nella sua sempre immutata apertura di fronte al Padre glielo manifesta, la croce può venir definita come forma primaria (archetipo) di confessione (Ur-Beichte). Va aggiunto che Gesù non manifesta davanti al Padre il peccato come una realtà a lui estranea bensì come una realtà da cui egli come nostro fratello non vuole desolidarizzarsi, ma, al contrario, la cui tenebra e la cui lontananza da Dio egli vuole assaporare sino in fondo; un’intrapresa che scaturisce da una risoluzione trinitaria di salvezza del mondo, a disposizione del quale il Figlio si è posto sin dall’eternità (cfr. 1 Pt 1,19), che nell’economia della salvezza assume la Forma di un comando del Padre e di un’obbedienza del Figlio: «È stato Dio (Padre) infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, … colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccatore in favor nostro, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2 Cor 5,19-2 1). La confessione-archetipo (Ur-Beichte) è la croce perché su di essa, in assoluta unicità, viene sofferto fino in fondo, in un’altrettanto assoluta obbedienza, tutto l’abbandono di Dio insito nello stato di peccato, e quindi la verità (anche di ciò che è peccato e cagiona il peccato) si rivela più potente della menzogna.
L’opera dell’obbedienza del Signore è la glorificazione del Padre e della sua volontà di salvezza nel mondo, per cui, a Pasqua, egli riceve la sua glorificazione nel Padre (Gv 13,31-32): la resurrezione di Gesù è al tempo stesso l’assoluzione donata dal Padre al mondo. E perciò del tutto congruente il fatto che il Sacramento della confessione venga istituito proprio il giorno di Pasqua: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati…» (Gv 20,22-23).
La confessione come Sacramento ottiene con ciò il suo posto nella sequela di Cristo: essa ha in sé un momento della Passione – confessarsi ha un carattere penitenziale, ma il fatto stesso che sia consentito di confessarsi è un dono di grazia proveniente dalla Pasqua. Va da sé che Adrienne von Speyr si riferisce sempre al singolo quando parla di chi riceve il Sacramento (il problema di un’assoluzione generale senza confessione personale dei peccati non poteva neppure venirle in mente quando dettava il libro, sul finire degli anni Quaranta); tanto più dal momento che ella vedeva l’istituzione del Sacramento come un finale che compendiava una lunga serie di esperienze di Gesù con singole persone: il suo contatto con malati, con peccatori, con gente che (come Nicodemo) non capiva, era sempre stato personale: a questo vengono rimessi i peccati, a quello aperti gli occhi… E ciò in antitesi con la situazione dell’Antico Testamento, in cui l’interlocutore di Dio era stato ogni volta il popolo: il popolo aveva rinnegato Dio, il popolo aveva supplicato misericordia, il popolo si era nuovamente convertito a Dio, ecc. Personalità singole come Mosé o i Re erano stati solo rappresentanti del popolo. Vi era stata, certo, sin da Ezechiele, un’attribuzione individuale della colpa e della conversione, e proprio perciò si poteva seriamente render possibile una morale; ma Sacramenti in senso proprio potevano esservene soltanto da Gesù Cristo e attraverso Gesù Cristo, che aveva trasmesso alla sua Chiesa il proprio essere e la propria virtù risanatrice. La confessione, ne deduce Adrienne, c’è per i peccatori, coloro per i quali qualcos’altro, come l’Eucarestia, resta troppo alto, troppo sacro, troppo incomprensibile. «Mi hanno battezzato, ma io non vivo secondo la regola del battesimo. Mi hanno cresimato, ma non sono un apostolo di Cristo. Io riconosco quanto la Chiesa si è adoperata per me, ma non mi giova a nulla. Mi mettono davanti agli occhi dei santi, ma io non sono davvero un santo. Io vivo nel peccato. E come peccatore io, di fronte alla Chiesa, posso aver sempre l’ultima parola. Ma se mi si dice: il confessionale è riservato ai peccatori, allora non c’è dubbio: ecco finalmente un posto per me. S’intende proprio me. Il confessionale è stato fabbricato col legno proprio per me. Io posso, s’intende, trovar da ridire anche confessione. Ma ciò non m’impedisce di sapere che qui si centra proprio la mia situazione. Quando si parla della comunione dei santi, allora io so con chiarezza di non farne parte. Ma quando mi si dice: esiste un comunione dei peccatori, chi vi appartiene? Allora so, senza tema di sbagliarmi, che io ne faccio parte».
Con questo concetto sorprendente di «comunione dei peccatori» c’imbattiamo ancora una volta in uno dei punti che stanno più fondamentalmente a cuore ad Adrienne, e che diventa comprensibile da ciò che è stato detto del dolore che il Signore ha sofferto al nostro posto sulla Croce. Perché là sono sempre già radunati i peccatori che si rinserrano tutti nel loro egoismo e sembrano pertanto costituire il contrario di una comunione. E dalla croce in poi il maggior peso del peccato non sta più nel singolo peccatore, nella sua cattiva coscienza di cui mediante la confessione vorrebbe disfarsi, ma in ciò che viene fatto al Figlio di Dio. La vera contrizione non può dirigersi al proprio io, che si rammarica di aver rinnegato il proprio ideale, ma unicamente a Colui che ha preso su di sé e portato via la colpa di questo io. La cosa più spaventosa è che sia stato offeso Dio, e il fatto che (anche) io l’ho offeso è solo un momento di questa cosa spaventosa. Per questo Adrienne in molte delle sue opere – e del tutto spontaneamente anche in molte delle sue confessioni – sottolinea così fortemente, accanto al momento personale, il momento sociale. Ella fa notare questo anche nella sua descrizione della confessione di santi, per esempio san Francesco, che ha peccato, ma confessando quanto è suo guarda molto di più all’offesa ricevuta dal Signore piuttosto che a se stesso; il che si riscontra ancora più fortemente in santi che sono senza peccato come Luigi: «Egli confessa distanza tra sé e l’infinito amore di Dio, di cui non può arrivare a raggiungere il sempre-più-grande». Adrienne non intende affatto – quando accenna al lato sociale – ciò che per lo più oggi suole indicarsi con questo termine (un trovarsi irretiti sociologicamente in situazioni economiche e politiche obiettivamente ingiuste), bensì qualcosa che appartiene al corpo mistico di Cristo, nel quale non vi è nulla di privato in senso stretto. Come, a suo avviso, qualcosa del peccato del mondo deve sempre introdursi in una confessione personale dei peccati, così anche l’assoluzione che un singolo credente riceve andrà sempre oltre la sua persona, riguarderà in modo inimmaginabile il mondo nella sua totalità. Proprio come nessuno può comunicarsi soltanto per sé: ciò contraddirebbe infatti palesemente il termine di comunione, che significa sempre comunione con Dio e insieme col corpo mistico di Cristo, di cui nessuno può fissare i confini. Come il partecipare alla carne e al sangue di Cristo è un partecipare all’acquisto di ciò che è stato immolato per la vita del mondo, così la partecipazione alla Croce in quanto confessione-archetipo (Ur-Beichte) è un’attualizzazione sacramentale di quell’assoluzione generale che venne pronunziata a Pasqua sul mondo come tutto riconciliato con Dio.
Vi è, infine, ancora un terzo aspetto della teologia dell’atteggiamento di confessione, a cui accenneremo soltanto brevemente, perché appartiene al carisma di Adrienne, accordatole «per il giovamento» (1 Cor 12,7) di tutti nella Chiesa, ma che appunto perché carisma resta inimitabile e al di là di ogni aspirazione. A lei fu concesso di vedere e descrivere l’atteggiamento di confessione – e con esso l’atteggiamento di preghiera – davanti a Dio di singoli santi ed altre personalità della Chiesa, per cui poté venire in luce una sbalorditiva dovizia di variazioni personali: ciascun santo, ciascun cristiano ha, nel suo rapporto con Dio, qualcosa di unico. Ma oltre a ciò emerse il fatto che anche in santi canonizzati vi furono certi difetti nel loro atteggiamento di confessione sulla terra, almeno in determinate fasi della loro evoluzione, che questa rivelazione mise allo scoperto. Per manifestare che in cielo l’atteggiamento di confessione di tutti è perfetta, vi fu a questo proposito come una sorta di «confessione» fatta dalla Chiesa celeste alla terra per ammaestramento, esortazione ed anche conforto di coloro che ancora lottavano sulla terra per raggiungere il retto atteggiamento di preghiera. Molte cose, certamente, restano misteriose: il fatto che nella beatitudine celeste si possa guardare senza turbamento ai propri errori passati, e stare perciò anche di fronte ad altri membri della comunità dei santi, è un aspetto della dottrina cristiana a cui si è davvero poco riflettuto. Ma se si torna a considerare in Adrienne la prima impostazione, quella trinitaria e cristologica, dell’«atteggiamento di confessione», questa confessione del cielo diviene più comprensibile. Adrienne ha difatti anche più volte parlato così dell’atteggiamento di confessione di Maria, che «non si sente esclusa dalla comunità dei confessanti, perché partecipa nella misura più alta dell’atteggiamento di confessione di suo Figlio. Ella partecipa della confessione di tutti i peccatori lì dove il Figlio come essere umano è perfettamente trasparente dinanzi al Padre. Maria resta, nonostante la sua perfezione, costantemente tesa nell’anelito verso questa irraggiungibile trasparenza». E se a proposito di lei si può già parlare di anelito, quanto più sarà possibile parlarne a proposito di tutti gli altri santi, che quaggiù – per le vie più diverse – andarono a questa trasparenza?
Vi è ancora un altro modo in cui ad Adrienne fu dato di vedere l’atteggiamento di confessione dei santi. Le furono prescritti esercizi penitenziali che diventarono, per gradi stabiliti, sempre più ardui. Gli ultimi gradi, a quanto sembra, non erano più «pretendibili». Adrienne dovette passare attraverso questi gradi nello spirito di vari santi: e divenne allora evidente che molti si erano lasciati condurre in silenziosa umiltà fino all’«impretendibile», mentre altri, in questo o quel punto si erano bloccati e avevano ricusato di proseguire. Coloro che arrivano all’estremo possono meravigliarsi che Dio nell’esigere possa arrivare a tanto; ma non sta a loro decidere quali siano le possibilità di Dio. Maria Ward dice in una di queste prove: «Infine non siamo noi a determinare che cosa Dio possa o non possa. E dovremmo rallegrarci se ci toglie tutti quei saldi concetti che lo confinano». Voleva qualcosa di temerario e di nuovo. E riconosce che Dio può essere molto più temerario di quanto lei si fosse immaginata. Giovanna di Chantal dice: «È pesante. Ma io cerco di accettare, e di spostare il peso della prova. Il pesante non sta in me. Dio deve mettere alla prova: io obbedire». E Matilde di Hackeborn: «Mi duole di aver detto avanti che non credo che Dio possa pretendere di più. Non avrei dovuto aver l’ardire di sapere dove sono i limiti delle pretese di Dio».
Questi sono soltanto alcuni esempi di perfetto atteggiamento di confessione. Adrienne fu anche fedele a questo concetto, dell’opinione che un confessore potesse, quando gli sembrasse bene, sollecitare il suo penitente a confessarsi. Per lei personalmente ciò non rappresentò alcun problema, solo l’attuazione di qualcosa che potenzialmente – e finanche attualmente – c’era sempre.
- L’autore si riferisce all'edizione tedesca; il piano dell’opera e i dati delle diverse traduzioni pubblicate in italiano e altre lingue sono disponibili all’indirizzo https://balthasarspeyr.org/it/opera/speyr. [NdR]↩
Hans Urs von Balthasar
Titolo originale
Adrienne von Speyr e il Sacramento della Confessione
Ottieni
Temi
Dati
Lingua:
Italiano
Lingua originale:
ItalianoCasa editrice:
Saint John PublicationsTraduzione:
Laura Draghi SalvadoriAnno:
2023Tipo:
Articolo
Fonte:
Il Nuovo Areopago. Rivista trimestrale di cultura 2/3 (Roma, 1983), 218–224
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