La percezione della forma

Gloria. Una estetica teologica I

AutoreHans Urs von Balthasar

La percezione della forma è il primo volume di Gloria. Una estetica teologica. Quest’opera fa a sua volta parte di un insieme più ampio: la trilogia – senz’altro il contributo più importante di von Balthasar – che presenta la Rivelazione di Dio secondo i «trascendentali» della tradizione filosofica, ovvero bellezza, bontà e verità come proprietà inerenti a tutto l’essere. Così, il manifestarsi della gloriosa bellezza di Dio è oggetto della prima ala del trittico, l’estetica teologica; seguono la Teodrammatica, che mette a tema il confronto tra la libertà divina e quella dell’uomo, e la Teologica, che esamina la struttura della verità.

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Indice

Gloria: l’«estetica teologica» nel quadro della trilogia

Perché la prima parte di questa sintesi [ovvero dell’insieme della trilogia] s’intitola «Gloria» [Herrlichkeit]? Perché si tratta innanzitutto semplicemente di percepire la rivelazione di Dio, e Dio non si conosce che dalla sua signoria [Herr-heit], dalla sua maestà [Hehr-heit], da ciò che Israele chiama Kabod e la Nuova Alleanza «gloria», pur con tutti gli «in incognito» della natura umana e della Croce. Ovvero: Dio non viene primariamente in qualità di maestro per noi («vero»), o di «redentore» la cui missione è finalizzata a noi e a nostro vantaggio («buono»), bensì viene per mostrare e irradiare SÉ STESSO, la gloria del suo eterno amore trinitario, con quel carattere di «disinteresse» che il vero amore ha in comune con la vera bellezza. È a gloria di Dio che il mondo è stato creato ed è per mezzo di questa sua gloria e in vista di essa che viene anche redento. E solo chi, toccato da un raggio di questa gloria, ha un primo sentore di ciò che è l’amore gratuito, può scorgere la presenza dell’amore divino in Gesù Cristo. Aisthesis, la percezione (del vero) [Wahr-nehmen], e aistheton, la cosa specifica percepita [Wahr-genommene] come amore raggiante, nell’oggetto della teologia sono congiunti. Il «glorioso» corrisponde sul piano teologico a ciò che il «bello» trascendentale è sul piano filosofico; ma per il pensiero occidentale, da Omero e Platone, passando per Agostino e Tommaso, fino a Goethe e Hölderlin, Schelling e Heidegger, la bellezza è il carattere ultimo e riassuntivo dell’essere come tale, dell’essere onnicomprensivo; è la sua ultima e misteriosa forza d’irradiazione, ciò in virtù del quale lo si ama nella sua totalità, malgrado i terrori che esso cela per gli enti. Attraverso lo splendore dell’essere, dalla sua profondità ultima, nel segno estraneo dell’accadimento biblico – un evento contrario a ogni attesa umana, unico e irripetibile, impossibile da inventare e da decifrare: il che indica chiaramente la sua origine soprannaturale – irrompe quella gloria di Dio del cui riconoscimento e lode sono pieni la Sacra Scrittura, la liturgia della Chiesa e i motti dei santi fondatori.

Il primo volume: «La percezione della forma»

Il primo volume, La percezione della forma, descrive l’incontro dell’uomo con questo carattere massimamente divino di Dio. L’accesso a partire dall’estetica può sembrare inconsueto e arbitrario, ma è nondimeno (come si mostra in Solo l’amore è credibile) l’unico adeguato. Solo esso è in grado di accogliere nel suo campo visivo il divino come tale senza renderlo a priori confuso coll’introdurre una relazione utilitaria con il cosmo (che nella sua incompiutezza desidera un compimento divino) o con l’uomo (che ancor più incompiuto e perduto nel peccato esige un salvatore). Il primo passo per vedere in modo oggettivo è il «lasciar essere» ciò che si manifesta, e fosse pure, questa realtà che si manifesta, l’«amore eterno per me». Il primo passo non è dominare il materiale sotto osservazione per mezzo di categorie del soggetto, bensì mantenersi in un atteggiamento di servizio verso l’oggetto. In termini teologici, ciò significa che è attraverso la riverenza (timor filialis) e l’adorazione che ci si schiude l’ineffabilità dell’amore divino. E per quest’ultimo vale l’affermazione (che è un elevamento della trascendentalità del bello «filosofico») che proprio nell’apparente contrario di sé stessa, nella kenosi del descensus ad inferos, la gloria di Dio si dimostra definitivamente come ciò che è: amore che serve disinteressatamente per amore. Così «Gloria» non mira solo all’autentico centro della teologia, bensì anche al centro della situazione esistenziale. Si può anche dire che in «Gloria» l’ignaziano «ad majorem Gloriam» (che chiude la serie dei motti di fondatori iniziata da Benedetto) viene aperto all’esegesi giovannea della realtà biblica – vetero e neotestamentaria – kabod-doxa-gloria, e così alla figura conclusiva dell’interpretazione che la Rivelazione dà di sé stessa.