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Un’esistenza ecclesiale: Bernanos
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«Pochi libri ho scritto con maggiore partecipazione interiore», ebbe a dire von Balthasar a proposito di questa monografia, stesa appena dopo la sua uscita dalla Compagnia di Gesù (e pubblicata per la prima volta nel 1954 presso Hegner). Nel romanziere francese, uomo «profondamente sofferente, e che spesso può sembrare uno “pneumatico” [nel senso teologico del termine, cf. 1Cor 2,14-15] quasi senza regola», il teologo vede un cristiano che «ha spogliato la sua anima fino a quella terribile nudità che la espone senza protezione alcuna al fuoco del vangelo». E lo studio della sua opera è per Balthasar l’occasione di approfondire un tema a lui caro, quello del rapporto tra teologia e santità. Ad affascinare e travagliare Bernanos in tutti i suoi romanzi è appunto il fenomeno della santità – che si tratti del sacerdote, inteso come figura esemplare, o di un laico come la Chantal di La gioia, l’agnello sacrificale che prende il posto dei malvagi che la circondano; e si tratta della santità all’interno di una Chiesa che lo scrittore, in una oggettività squisitamente cattolica, vede come la Chiesa dei sacramenti (vissuti!) e dell’obbedienza ministeriale. Il fuoco del vangelo «non si appicca altrimenti che mediante le torce sacramentali accese dalla Chiesa», spiega Balthasar: «in Una notte si tratta della torcia del battesimo; in Sotto il sole di Satana, L’impostura e La gioia, così come nel Diario di un curato di campagna, si tratta del sacerdozio e dell’eucaristia, della confessione e dell’unzione degli infermi; e nei Dialoghi delle Carmelitane, della potenza oggettiva quasi-sacramentale dei voti».
Ma Bernanos è anche lo scrittore che s’interroga sul fenomeno del male più estremo che l’uomo possa compiere, lo scrittore che detta le sue opere sulla soglia stessa dell’abisso degli inferi. E tuttavia questi inferi sono sempre di nuovo tenuti in scacco dal santo, dal cristiano che si dona totalmente e soffre impotente nella sequela Christi, e così ha la grazia di vincerli dal di dentro. Se dunque lo scrittore vive in un’angoscia abissale, egli però «ha imparato a situare quest’angoscia in ultima istanza presso l’angoscia del Monte degli Ulivi, ben al di là dell’angoscia filosofica di Heidegger e di quella, non senza nevrosi, di Kierkegaard; l’autentica angoscia cristiana non è altro che la putredine del peccato finalmente cambiata in fuoco purificatore».
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