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«Fine del cristianesimo convenzionale»?
ハンス・ウルス・ フォン・バルタザール
原語タイトル
“Ende des konventionellen Christentums”?
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書籍説明
言語:
イタリア語
原語:
ドイツ語出版社:
Saint John Publications翻訳者:
Community of Saint John年:
2022種類:
論文
Tre livelli della parola «convenzionale»
Gli slogan ad effetto sono il più delle volte ingannevoli, perché ci confondono giocando con una qualche ambivalenza nascosta; sono da annoverare tra i terribles simplificateurs, e proprio nell’odierno dibattito ecclesiale. Ma in quanto tali sono anche un invito alla riflessione e alla decisione. Nella maggior parte dei casi, infatti, toccano un punto centrale – pur facendolo in modo tale da nuocere invece che giovare. Così, l’espressione che oggi si sente spesso ripetere e che abbiamo preso per titolo, «fine del cristianesimo convenzionale», può senza alcun dubbio, a un primo livello, cogliere nel segno. Può voler dire esattamente la stessa cosa che il Concilio ha voluto dire e ha considerato un punto centrale: basta con il solito andare avanti meccanicamente lungo binari ormai triti e ritriti, col trascinarsi di questo automatismo non riflettuto e senza più spirito, che da parte sua il mondo – un mondo consapevole e attivo, che prende in mano le proprie sorti – a buon diritto ha già da tempo superato, anzi travolto. «Convenzionale» in questo senso significa semplicemente ciò che si continua a fare perché «si è sempre fatto così», senza interrogarsi sulla sua giustificazione.
Con la parola «giustificazione» tocchiamo però un secondo livello, più profondo: ci sono cose che potevano benissimo essere giustificate quando sono state introdotte con un responsabile «con-venire» (questo il senso della parola «convenzione»); e nei loro confronti bisogna chiedersi – è una domanda autentica, che non si può liquidare a priori – se ciò che allora aveva buoni motivi li ha ancor oggi o no. Un esempio: la convenzione della Chiesa antica che impone l’obbligo di partecipare all’Eucaristia una volta alla settimana, nel giorno del Signore, era ben fondata e può esserlo oggi almeno tanto quanto allora; invece, la convenzione di collocare i fedeli nella navata, inquadrati nei banchi coi loro inginocchiatoi, forse era problematica sin da quando è stata introdotta, e può ben darsi che lo sia diventata ancor di più col passare del tempo.
Ma questo esempio, uno tra i tanti che si potrebbero fare, porta alla luce un terzo livello: nella Chiesa di Cristo ci sono «convenzioni» che chi ha la responsabilità di guidarla ha preso guardando direttamente all’idea di Chiesa del Fondatore – si potrebbe parlare di «interpretazioni di prima mano» –, e altre che si sono introdotte in modo quasi (o del tutto) irriflesso, per mera abitudine, oppure sono state stabilite dalla gerarchia ecclesiale come disposizioni più o meno puramente disciplinari (perché in un grande corpo sociale è necessario un certo ordine), e perciò sono passibili di una revisione molto più facilmente delle prime che abbiamo menzionato.
Individuando questa gradazione di significati, che è quasi un’ovvietà per una Chiesa che si vuole Chiesa di Cristo, abbiamo anche già trovato il principio che ci aiuta a mettere a profitto quello che in partenza era un mero slogan, la frase «fine del cristianesimo convenzionale», in vista di un piano ben ponderato di rinnovamento ecclesiale.
In effetti è proprio dell’Ecclesia semper reformanda il passare sempre di nuovo, come corpo nel suo insieme e per quanto possibile in ciascuno dei suoi membri, dall’abitudine piatta, dal mero «praticare» fine a se stesso, a una «pratica» spiritualmente motivata e assunta in modo pienamente personale; il che significa tradurre in prassi le verità conosciute e credute, tanto sul piano della vita comunitaria quanto in tutti gli aspetti e le situazioni dell’esistenza dei singoli. A questa esigenza, che non ammette condizioni o limitazioni, se ne aggiunge una seconda: la Chiesa nel suo insieme – e, possiamo dire, anche ciascun singolo membro secondo quanto può e gli compete – deve fare ogni sforzo per disfarsi di tutto ciò che si trascina dietro in fatto di «convenzioni» vuote, di convenzioni cioè che nel nostro tempo non si prestano più ad essere animate da uno spirito e perciò sono di ostacolo al vero Spirito della Chiesa; o, se non per disfarsene, almeno per cambiarle con intelligenza. (Naturalmente la non convenzionalità di una cosa non basta di per sé a dimostrare che quella cosa è sensata e viva e animata da uno spirito. Se così fosse, la musica di Haydn e di Mozart, o la pittura di Raffaello, o le icone orientali, andrebbero definite per converso prive di spirito, dato che la loro arte si basa tutta sulle più rigide convenzioni).
Ma si arriva al vero e proprio nocciolo del problema solo quando ci si chiede: a favore di che cosa le convenzioni senza spirito devono essere tolte di mezzo? Qual è il criterio, il metro su cui misuriamo il nuovo che deve subentrare al vecchio? È chiaro sin dal principio che nella Chiesa di Cristo il criterio ultimo non può essere se non l’ascolto obbediente della parola di Dio in Gesù Cristo; mentre la considerazione per l’«uomo moderno» può tutt’al più costituire un criterio secondario e conseguente. Quali siano le caratteristiche di questo ascolto obbediente, è il tema delle brevi considerazioni che seguono, articolate in tre punti.
1. Gli enunciati fondamentali della Rivelazione
La Chiesa è il popolo, il corpo e la sposa di Cristo, «rigenerata … per mezzo della parola di Dio viva ed eterna» per «obbedire alla verità» (cf. 1 Pt 1,22 s.) che è Cristo stesso. Nei confronti di questa verità, anche i cristiani più «adulti» rimangono «figli obbedienti» (*ibid. *1,14), predestinati a «obbedire a Gesù Cristo e ad essere aspersi dal suo sangue» (*ibid. *1,2). Il corpo è l’organismo che esegue ciò che il capo progetta e dispone. Una Chiesa emancipata da Cristo è una contraddizione in termini. E lo spirito che anima il corpo che la Chiesa è (cioè lo Spirito Santo), essa lo ha e lo riceve solo implorando sempre di nuovo lo Spirito di Cristo, solo nel «convertirsi al Signore» (2 Cor 3,16). Ma questo Spirito ci parla attraverso la Bibbia con la massima chiarezza, a prescindere da tutta la problematica della «demitizzazione» circa alcuni singoli punti. In molti cristiani di oggi c’è una contraddizione impressionante, e spesso addirittura grottesca, tra il loro genuino desiderio di tornare alle fonti, alla Scrittura stessa, per udirvi la parola della Rivelazione in tutta la sua purezza, e i loro spasmodici sforzi, destinati comunque a fallire, per sentirsi dire dalla Bibbia solo ciò che appare loro attuale e sostenibile nel nostro tempo. Ma, come spesso capita in questo genere di situazioni contraddittorie, è l’uomo ad avere la peggio: perché la Parola di Dio è più forte di tutti i desideri dell’uomo; dice ciò che vuole dire, e non ciò che l’uomo sarebbe contento di sentire. E che cosa ci dice? Che Dio è un Dio dei viventi, e non è affatto morto. Che Dio si è fatto conoscere come amore e ha dimostrato di essere amore – l’amore eterno, vale a dire trinitario –, e non è affatto un Dio sconosciuto, sul quale non si potrebbe fare nessuna affermazione. Che tutti i comandamenti culminano nel comandamento più importante, cioè ricambiare con tutta l’anima e con tutte le forze l’amore di questo Dio che è amore; e si tratta di amare Dio, e non immediatamente o esclusivamente il prossimo, dato che il comandamento di amare il prossimo come sé stessi è chiaramente distinto nella sua formulazione dal precedente. E se è vero che con l’Incarnazione di Dio i due comandamenti vengono strettissimamente uniti, questo non significa – lo vede anche un bambino – che non ci sarebbe più bisogno di amare Dio in sé stesso, e che basterebbe ormai amarlo nel nostro prossimo; piuttosto, significa che dobbiamo imitare Gesù Cristo, che ci ha reso presente l’amore di Dio vivendolo sotto i nostri occhi in forma umana, e perciò dobbiamo sforzarci di amare il nostro prossimo con un amore conforme a Dio e non solamente umano. Ancora, la Bibbia – da Mosè, passando per i profeti e il Servo di Yahweh fino a Gesù e a san Paolo – parla di espiazione vicaria, anzi di morte in sostituzione vicaria, e appare evidente che questa idea deve concretizzarsi in atto in ogni generazione cristiana. Anzi, se il cristiano in virtù del suo battesimo è sepolto nella morte di Cristo (Rm 6,4) e ad ogni celebrazione eucaristica rinnova la proclamazione della morte di Cristo (1 Cor 1,26), se deve prendere su di sé la sua croce ogni giorno (Lc 9,23), e portare «sempre e dovunque nel suo corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Cor 4,10), allora non dovrebbe essere una cosa superata dire che il cristiano è essenzialmente «crocifisso a questo mondo» (Gal 6,14), e che dunque non può installarsi in esso, sentirsi a suo agio nelle realtà mondane come un pesce nell’acqua: è uno «straniero e pellegrino», che coloro che sono installati nel secolo non possono fare a meno di «trovare strano» (1 Pt 4,4), mentre da parte sua lui non si meraviglierà «come fosse qualcosa di strano» (*ibid. *4,12) della sua permanente estraneità e delle sofferenze che patisce. Giacché l’amore in virtù del quale egli vive così – e così deve vivere – viene da più lontano e va più lontano di quanto il mondo possa capire. E perciò necessariamente il mondo lo odierà e lo perseguiterà, non solo in quanto lo trova «indigesto», ma anche perché sente che in quest’uomo è presente una forza che «giudica» il mondo. Per farla breve: tutte queste articolazioni fondamentali dell’annuncio biblico (che oggi si suole definire coi termini non troppo chiarificatori di verità ed esistenza escatologiche) dicono più o meno dappertutto il contrario di ciò che molti cristiani che aspirano ad essere «moderni» cercano ad ogni costo di far dire alla Bibbia – se ancora gli importa qualcosa della Bibbia, e non semplicemente di liquidarla coi mezzi di una demitizzazione che, andando ben al di là dell’operazione assolutamente legittima di trasporre il messaggio di Dio in una lingua comprensibile al mondo di oggi, trasforma lo stesso messaggio divino in un messaggio umano e terreno, ovvero trasforma la teologia (che significa in primo luogo: «Dio parla») in antropologia. Una vera demitizzazione dovrebbe essere la giusta de-convenzionalizzazione: l’eliminazione di tutte quelle incrostazioni che rendono impermeabile il nostro cuore, in modo che la spada della Parola di Dio in ciò che essa dice veramente ci possa trovare di nuovo totalmente nudi e senza difese.
2. Chi davvero ha vinto le convenzioni?
Quando, nel corso della storia, vediamo che il livello del «cristianesimo convenzionale» è stato superato? Tutte le volte che un autentico santo si è aperto un varco fino a trovarsi nell’immediatezza rispetto al Vangelo; tutte le volte che ha osato tuffarsi a capofitto nel fluido primordiale della Rivelazione. O è forse da ascrivere al «cristianesimo convenzionale», quel san Francesco che getta le sue vesti ai piedi del padre e, completamente nudo, viene coperto dal mantello della Chiesa? Ma tutti coloro che con cuore indiviso offrono e donano a Cristo la propria esistenza intera, per quanto povera, fanno fondamentalmente la stessa cosa. È vero che questo gesto può venir corredato di certi segni «convenzionali»; ed è anche vero che anche quei temerari tuffatori che sono i santi possono venire «istituzionalizzati» inserendoli nel quadro della generale tiepidezza della Chiesa – come fa Don Mendez Leal nella Scarpina di raso di Claudel, quando dice a Rodrigo: «Lasciamo al loro posto sugli altari e nelle cappelle queste venerabili e rispettabili figure, e non le s’intraveda che attraverso le volute dell’incenso […] Bisogna che un santo abbia una figura per così dire generale, perché è il patrono di molta gente, che abbia un contegno decente e gesti che non significano nulla in particolare»; al che Rodrigo sbotta: «E io, io ho orrore di quelle facce da baccalà! … I santi erano pura fiamma, e nulla gli assomiglia se non scalda e non arde!» [Quarta giornata, Scena II]. E noi possiamo continuare sullo stesso tono rude del vecchio lupo di mare: per porre fine al cristianesimo convenzionale in un modo che si addica alla causa di Cristo, ci vogliono dei santi (è condizione necessaria e sufficiente: requiritur et sufficit), o perlomeno delle persone che seriamente «aspirano alla santità», cioè sono pronte a rinunciare a tutto il resto per il Regno di Dio, e per amore della sequela di Cristo puntano tutto su quest’unica carta. A un prezzo meno alto di questo non è possibile avere un «aggiornamento» [in italiano nell’originale] davvero cristiano. «Le stigmate di Gesù» (Gal 6,17) devono marcare l’esistenza nella sua totalità. E chiunque voglia esercitare la sua critica nei confronti di quanto c’è di convenzionale nella Chiesa, del suo imborghesimento e della sua tiepidezza, deve poter presentare come proprie credenziali quelle «stimmate», quei segni distintivi.
Orbene, tra i caratteri fondamentali della persona di Cristo (Fil 2) c’è l’obbedienza fino alla morte: solo e precisamente per mezzo di essa ha avuto luogo quell’enorme rivoluzione che è la Risurrezione e l’inizio della nuova umanità. E tutte le rivoluzioni dei santi sono state contraddistinte da questa stessa obbedienza – per quando paradossale possa suonare l’affermazione, e per quanto paradossale sia stata la cosa stessa nei singoli casi. Un’obbedienza incarnata, ecclesiale. E in alcuni casi è stata una lotta senza quartiere: quando un santo è arrivato col compito assegnatogli da Dio di riformare la Chiesa, e la Chiesa non aveva nessuna voglia di farsi riformare. In questo genere di situazioni il santo ha vinto, alla lunga, in virtù di una fede «purificata nel fuoco dell’obbedienza sofferente» e di una fedeltà incrollabile alla missione ricevuta. Con ciò ha pagato il prezzo per il suo «aggiornamento»; e non ha visto in questo prezzo nient’altro che una grazia. E se oggi una trasmissione della radio tedesca – un programma religioso di tendenza «sperimentale» – ha voluto intitolarsi «Esercizi di disobbedienza», lasciando intendere che solo disobbedendo a una Chiesa fossilizzata sarebbe possibile introdurre le innovazioni necessarie al nostro tempo, è perché si è perso di vista il punto fondamentale: i santi che sono chiamati a operare una riforma hanno sì, spesso, la testa dura, ma più dura ancora è la loro obbedienza; la loro obbedienza a Dio rimane obbedienza alla Chiesa fino a quando quest’ultima finalmente comprende il compito che essi hanno ricevuto e si fa essa stessa obbediente al carisma donatole da Dio attraverso quel dato santo. Secondo la parola di Paolo è solo Dio (Rm 12,3), solo Cristo (Ef 4,7), a distribuire i carismi: sempre a beneficio della comunità.
3. L’esigenza di andare oltre sé stessi
Ma non abbiamo ancora detto la cosa più dura. Dobbiamo tornare ancora una volta alla questione che ci siamo posti all’inizio, con la relativa pluralità di livelli: che cosa significa «convenzione» nella Chiesa? Nell’Antico Testamento si possono seguire le tracce di uno strano processo: il sacerdozio postesilico stabilisce il rituale del tempio fin nei minimi dettagli – che spesso ci sembrano minuzie; e proietta all’indietro tutto questo ritualismo facendolo risalire al tempo del deserto, del Sinai, per così dire per garantirlo in forza della più originaria sanzione divina. E questo nel testo (comunque ispirato!) della Bibbia, che certo possiamo esaminare con gli occhi del metodo storico-critico, ma senza che da essa ci sia lecito estrapolare una selezione di passi che ci convengono, per considerare solo questi come parola di Dio. Certo, il caso citato era nell’Antica Alleanza, e non deve affatto valere come un filo conduttore per affrontare i problemi del cristianesimo di oggi; ma tuttavia potrebbe farci un pochino riflettere. Perché ci mostra che dobbiamo stare molto attenti nel definire ciò che di primo acchito etichetteremmo volentieri come motivato dalle condizioni storiche di una data epoca. La Chiesa, animata dal soffio dell’eterno Spirito di Dio, può far sì che siano piene di spirito anche forme che esteriormente appaiono «inattuali», non adatte ai tempi. Oggi ci sono teologi che ad ogni piè sospinto chiamano in causa il criterio della veracità e dell’autenticità. Orbene, la veracità è una virtù in tutto e per tutto biblica, specialmente come proprietà di Dio. E in una «religione» in cui si tratta dell’autorivelazione di Dio e dell’abbandonarglisi nella fede da parte dell’uomo, è Dio ad avere la prima e l’ultima parola, ed è lui a stabilire, a partire dalla sua propria veracità, che cosa debba valere come verità per l’uomo. La cosa decisiva non sono il «sentimento» e la «sensibilità» e l’«esperienza» e le «inclinazioni» dell’uomo, bensì è il suo trascendersi nella fede per abbracciare una verità che è più grande di lui. E mentre va in questo modo oltre sé stesso l’uomo non può contemporaneamente tornare a guardare a sé stesso per cogliere in modo riflesso la misura e la forma di questa sua autotrascendenza e assumerne la direzione, per così dire la regia. Dal punto di vista umano, una cattedrale gotica è sovradimensionata: essa vuole trasmettere all’uomo un senso del Deus semper maior, del Dio sempre e comunque più grande – col che naturalmente non è detto che essa sia l’ambiente ideale per la celebrazione liturgica di una comunità parrocchiale. Ma anche questa celebrazione, anzi tutte le espressioni sacramentali della Chiesa hanno un contenuto che per l’uomo naturale è sovradimensionato. La forma ideale per tali contenuti sarebbe quella che fosse al tempo stesso pienamente umana, e capace di portare l’uomo al di là e al di sopra di sé stesso e dell’ambito umano per attingere al mondo di Dio; sarebbe dunque per così dire un’eco del mistero cristologico delle due nature, e perciò una forma genuinamente ecclesiologica. Una forma che al tempo stesso sarebbe forse umanamente comprensibile, senza che pertanto la dimensione del mistero risulti diminuita. Non saranno la sola tecnica e la sola sociologia a donarci le forme nuove che cerchiamo, bensì, insieme ad esse e accanto ad esse, molta lotta e molta preghiera per ricevere lo Spirito Santo. Solo insieme a Lui saremo in grado di discernere che cosa nel «cristianesimo convenzionale» ha fatto il suo tempo e ha bisogno di un’energica riformulazione, e che cosa invece sembra superato solo a un osservatore esterno, a uno che non ha o ha perduto il senso del mistero: mentre per chi vive nella fede, oggi come allora, è la forma più grande inserendosi nella quale, con gratitudine, egli può andare oltre sé stesso.
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