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Santità nella vita quotidiana
Un uomo la mattina sta andando al lavoro, senza pensare a nulla in particolare; ed ecco che dalla strada gli arriva un motivetto, un successo del momento: lui va dietro alla melodia, e alla fine è la melodia che perseguita lui, e non riesce a liberarsene per tutto il giorno. Oppure, sente per caso una brutta parola, senza neppure sapere se è diretta a lui; e la parola fa presa nel suo animo, gli dà da pensare. Magari è risuonata nello stesso momento in cui la portiera di un’auto si chiudeva: e ogni volta che nel corso della giornata sente un rumore simile, quella parola torna a presentarglisi.
La nostra vita psichica è in qualche modo sempre indifesa ed esposta: influenze e stimoli esterni possono segnarla e cambiarla, darle un certo tono, addirittura catturarla. E le occupazioni quotidiane della maggior parte delle persone sono tali da non impegnare e incanalare per intero la loro attenzione; lasciano tutta una zona di vita interiore come inutilizzata. Uno può per tutto il giorno lasciarsi accompagnare da una melodia, o da un pensiero, senza pertanto essere impedito nel suo lavoro; e se anche lui, da parte sua, si rende conto che potrebbe darsi al suo compito con ancora maggiore intensità e dedizione, tuttavia, guardando al lavoro svolto, nessuno noterà che il lavoratore non era sul pezzo, era distratto, né potrà dire qual era l’umore, buono o cattivo, dell’uomo che lo ha svolto, o quale idea fissa lo dominava. Ma forse quell’uomo, confrontando i due giorni – quello della melodia e quello della brutta parola –, sarà scosso al pensiero di quanto il suo mondo interiore sia stato influenzato dal caso; e si chiederà se uno non potrebbe, invece di lasciarsi influenzare e determinare da circostanze così insignificanti, vivere attingendo a un nutrimento nascosto, sostanziale, a una scelta e a una decisione interiore, a una fonte che, non vista, lo accompagni lungo la sua vita quotidiana e faccia della sua vita una vita essenziale, cristiana e santa. Se le cose da nulla esercitano su di noi una tale forza, o per meglio dire, se noi abbiamo nel nostro intimo tante energie e tanti spazi che nella vita di tutti i giorni restano inutilizzati – ed essendo tanto vuoti diventano disponibili alle bagattelle del tran tran quotidiano: allora, che aspetto dovrebbe avere una vita che offrisse queste possibilità inutilizzate a una realtà autentica, alla realtà di Dio?
Siamo cristiani. Siamo credenti, abbiamo la fede. Compiamo il minimo richiesto dalla Chiesa. Ma forse lo facciamo come quell’uomo fa il suo lavoro: in modo pulito, onesto, incontestabile; soltanto, c’è uno spazio vuoto – forse molto più grande di quello occupato dall’osservanza dei «precetti della Chiesa» – che ci teniamo riservato, nel quale viviamo per noi stessi e siamo a posto con noi stessi. Ma cosa succederebbe se la Parola di Dio prendesse possesso in noi di quello spazio ora occupato dalle circostanze casuali o da un piacere periferico? La Parola di Dio rivendica per sé questa sfera. Vuole vivere in noi nello stesso modo in cui il seme di Dio ha vissuto in Maria: come signore assoluto, e crescendo. Non dovremmo definirci credenti e cristiani se teniamo sprangate alla Parola di Dio certe porte del nostro spirito. Se avanziamo delle riserve. Se teniamo solo una parte di noi stessi a disposizione della Parola. Credere, vivere della fede, vuol dire portare, «gestare» la Parola; e questo a sua volta implica e richiede che ci lasciamo portare e sostenere totalmente e in modo sempre crescente dalla Parola stessa.
La fede viva non significa avvicinarsi alla Parola di Dio lentamente e un po’ alla volta, per stadi e intervalli misurati, convertirsi alla Parola di Dio gradualmente, secondo un certo piano, magari anche intelligente; o fare un primo tentativo con le parole di Cristo che sembrano più facili, guadagnando tempo per rinviare le più difficili – quelle che esigono tutto – a un indefinito «più tardi». La fede viva significa osare subito il tutto, accogliere subito con un sì anche le parole più incredibili e meno passibili di trasposizioni. Per trovarci ex abrupto, senza scappatoie possibili, di fronte all’assoluto, e senza scappatoie sgomberare a questo assoluto, a questo «impossibile», lo spazio che esso esige. Uno spazio che non avrebbe più niente a che fare con quell’apertura indifferente e fiacca a tutti gli accidenti della strada; che sarebbe in me quello spazio intimo a partire dal quale tutti gli altri posti e spazi dell’anima possono essere occupati e ordinati. Una parola del genere potrebbe essere il detto del Signore: «Siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» [Mt 5,48]. O quella parola di Dio nell’Antico Testamento: «Siate santi, perché io sono santo» [Lv 19,2]. Dunque, una parola che esige di gettare nella santità di Dio tutta la nostra quotidianità con le sue cianfrusaglie, di lasciar sprofondare nella santità del Padre la miseria dei nostri peccati e la fiera delle nostre imperfezioni. E in ogni caso di fare spazio a Dio in noi mettendolo al posto di noi stessi.
Colui che esige questa cosa apparentemente impossibile è il Figlio di Dio, che conosce un’unica volontà: quella del Padre. Che durante tutta la sua vita non ha fatto altro che compiere questa volontà. Che, facendosi uomo, ha preso su di sé la nostra quotidianità, la nostra vita di tutti i giorni, per colmarla dell’eterno giorno del Padre. Che, scendendo di lassù e venendo quaggiù, è venuto dalla sua eternità a toccare il tempo per farne un vaso capace della vita eterna, senza attenuazioni, senza offuscamenti, senza compromessi. In questo suo sprezzare la propria dignità è contenuta tutta la dignità divina: facendolo Egli non perde nulla delle sue prerogative; anche in quanto uomo è santo come Dio Padre è santo. «Chi di voi può dimostrare che ho peccato?» [Gv 8,46]. E il suo modo di vivere la sua perfezione è tale che essa risulta aperta per noi. Compiendo l’incredibile, egli ci invita a compierlo con lui in senso inverso: a gettarci da quaggiù verso l’alto in questa santità – che è determinata da quella del Padre –, per viverla e incarnarla secondo la nostra indole e la nostra missione.
Questo salto, questo gettarsi, è anzitutto e in primo luogo un atto di fede. Se cerchiamo di comprendere qualcosa di quel comando del Figlio che esige che siamo perfetti come Dio, ci si fa subito evidente che esso non può assolutamente spiegarsi in termini puramente razionali e teorici, e come dal di fuori. Per la ragione che sa cos’è Dio e sa cos’è una creatura, anzi un peccatore, quel comando è addirittura assurdo. Se consideriamo e valutiamo noi stessi per quello che siamo in termini di pura razionalità, ci risulterà evidente e incontrovertibile una cosa: non possiamo adempiere questo comando. Ma se non vogliamo fare del Signore un bugiardo, dobbiamo dire che, se lui esige una cosa, quella cosa è possibile. In un movimento, in un compimento che viene compiuto in noi in virtù della forza del Signore, mentre noi ci comportiamo in modo tale da lasciare davvero che sia il Signore a operarlo, rinunciando dunque, tra l’altro, a impiegare il metro del nostro capire e misurare. Nessun cristiano potrà mai vedere, comprendere e affermare la sua propria santità; e tuttavia allo stesso modo non potrà mai legittimamente affermare, se rimane dentro la fede, che Dio non sia in grado di avverare in lui la Sua Parola. Il credente rimette il suo giudizio e la sua comprensione a Dio.
«Santità» è una parola che ha la sua verità in Dio, e che nel credente vive solo nella forma di un comando, di una richiesta. Egli può mettere la sua vita sotto il segno di questa esigenza: «Siate santi! Siate perfetti!»; ma non può mai considerare l’esigenza come adempiuta. E in ultima analisi non è affatto libero di assumere o meno questa esigenza: deve farlo. Nella fede pone la sua vita sotto una verità ricevuta da Dio, dichiarandosi pronto a mettersi al servizio di questa verità. La radice della santità è dunque un’obbedienza. L’obbedienza della fede, addirittura un’obbedienza cieca, che sa nel più profondo che qui non c’è niente che si possa vedere, considerare e capire con le proprie forze umane. E però non si tratta di una fede assurda o disperata – che sotto sotto, ancora una volta, la saprebbe più lunga di Dio –, bensì di una fede umile, aperta, che lascia il più ampio spazio alla speranza di ciò che sorgerà. È come nei miracoli del Signore. Sono paralitico dalla nascita, e il Signore mi dice: «Alzati!»; e io mi alzo: non perché la mia ragione si sia faticosamente elevata fino a conquistarsi l’intuizione che credere in quella parola è giusto e ragionevole, bensì in quanto ricevo e accolgo in me la Parola di Dio, e nel comando che questa parola esprime ricevo – di punto in bianco, senza riflettere se la mia fede è sufficiente – la fede per eseguirlo. Accogliendo con cuore indiviso il dono della fede che il Signore mi fa nel suo comando. La forza di alzarmi sta nella parola creduta: «Alzati!». E tutto ciò che è contenuto nel significato della parola «alzarsi» e ha a che fare col processo dell’alzarsi è contenuto in quella parola. Io non mi alzo per riuscire a fare solo due passi, e il terzo già non più. O per tornare a giacere. Il comando di alzarsi implica anche la possibilità di camminare, e la contiene in sé. Alzandomi non esaurirò la forza dell’alzarsi; l’esigenza rimarrà viva pur nell’adempimento di essa, e così pure la forza corrispondente. Potrò di nuovo alzarmi anche domani, e ogni volta che lo vorrà quel comando che ha dato luogo a un alzarsi permanente e vivo, a un «rimanere nella condizione dell’alzarsi». Anche nella vita di tutti i giorni il Signore ci dona delle parole che quanto a forza non differiscono in nulla dalle parole con cui ha compiuto i suoi miracoli. Hanno in sé la vita, in ogni singolo istante, e rendono colui che le accoglie capace di vivere il singolo istante e di stare al servizio della Parola – e all’uomo che presta questo servizio è sottratta ogni possibilità di individuare una gradazione, di valutare la vicinanza o la distanza. La Parola rimane assoluta, e colui che la serve non ha il diritto di relativizzarla dentro di sé.
Relativizzarla sarebbe immancabilmente l’inizio dell’incredulità, o per lo meno quella «poca fede» che considera il comando del Signore esagerato e irrealizzabile. Che io sia imperfetto, anzi l’ultimo dei peccatori, non ha a questo proposito nessuna importanza. Non per questo la Parola rinuncia alla sua assolutezza. Non si attenua: rimane la realtà assolutamente viva, il vivente Assoluto. Il non volere dell’incredulo non può privarla di sé stessa. Ma dal credente si esige solo che metta la sua vita a disposizione della vita della Parola in lui, affinché questa Parola abbia in lui la forza che possiede in sé stessa.
Abbiamo passato un giorno intero con quel motivetto di successo nell’orecchio. Potremmo cercare di fare lo stesso con una parola del Signore; così la sua santità, che certo è infinitamente più potente di una melodia, ci accompagnerà nel modo più incisivo. La melodia può essere bella, ma pian piano si logora, diventa banale, insopportabile. La Parola del Signore scaturisce in ogni singolo istante dalla bocca di Dio, in tutta la sua freschezza. E noi la possiamo accogliere in questa sua prossimità, in questa sua urgenza, in questa eterna novità come intonsa. E anche nella sua incomprensibilità: chi mai può avere anche solo un sentore della perfezione del Padre! Solo il Figlio e lo Spirito Santo la conoscono. E tuttavia dobbiamo entrarvi e non possiamo relativizzare. Se tentiamo di misurare la santità del Padre sul metro della santità che noi possiamo raggiungere e comprendere, se per rappresentarcela sommiamo tutte le perfezioni e tutti i valori del mondo e li aumentiamo infinitamente e diciamo: «Il Padre è così»; e con un sospiro aggiungiamo: «E ancora molto più grande!», corriamo sempre il pericolo di svalutare la perfezione divina. Perché essa, se compresa secondo la nostra capacità conoscitiva, che è finita, diventa fin troppo facilmente una specie di catena infinita di piccole qualità ed eccellenze umane e terrene; e finisce per perdere l’unica cosa che in verità la contraddistingue: la sua assolutezza divina. E se cercassimo di agire sulla base di questo tipo di calcolo, se pensassimo di farci strada lentamente e faticosamente fino alla perfezione divina per via di addizione di una quantità, magari innumerevole, di piccoli e piccini atti e virtù, e di arrivare così per gradi ad adempiere il comando del Figlio, allora avremmo raggiunto di certo solo un risultato: avremmo ucciso l’assoluto nella nostra vita.
Chi fa un’opera buona vivendo nella fede, deve sempre anche ammettere: per quanto dipende da me, questo non è nulla, non conta. Pretendere che dall’addizione di simili nullità risulti alla fine qualcosa di grande non sarebbe solo irragionevole, sarebbe anche contravvenire alla fede. Non dobbiamo pretendere di ritrovare il mistero della fede, che non vediamo, nei dati di fatto controllabili di questo mondo visibile. Perciò possiamo fare soltanto una cosa: inserire continuamente tutto il nostro essere nell’esigenza assoluta del Signore, cercare continuamente, con tutte le nostre facoltà, di ricevere e accogliere in noi la Parola di Dio e di aspettarci come conseguenza di questa sua esigenza anche la risposta totale, che è il Signore stesso. Cercare di aspettare dentro un atto di fede che non è più scomponibile. Il comando di essere perfetti distrugge ogni possibilità di individuare una gradazione di stadi consecutivi. Ciò che noi facciamo – considerato in quanto azione umanamente conoscibile – è ineffabilmente piccolo. A fare la differenza decisiva è l’esigenza del Signore, il suo comando di essere perfetti come il Padre. E se noi ci mettiamo a riflettere sull’inconsistenza o consistenza di questo nulla, la nostra azione diventa un ostacolo che si frappone tra noi e la Parola del Signore. E quante più buone azioni facciamo riconoscendole e valutandole come tali, tanto più alto si fa questo ostacolo che ci rende incapaci di ricevere la Parola di Dio intatta e senza rifrazioni, cioè nella fede. Il bene, quello che noi consideriamo tale, può esserci di ostacolo nel cammino verso Dio tanto quanto qualcosa di cattivo o un peccato.
La possibilità di superare il divario sta tutta nel Figlio. Egli è venuto nel mondo per riportare il mondo al Padre mediante il suo amore. Facendosi uomo, non si è privato né del suo essere divino né della conoscenza di Dio; ma, essendo il suo compito nell’insieme un compito d’amore, lo era non solo quanto alla sua esecuzione, all’azione, ma anche quanto alla sua rappresentazione, alla contemplazione. Egli guarda al Padre anche in quanto uomo: ma anche questa visione [umana] non è durante la sua missione qualcosa di isolato da essa, un mero privilegio personale di cui egli si servirebbe magari per rinvigorire le sue forze; al contrario, quella visione del Padre che il Figlio incarnato ha trova misura e senso nella Sua missione d’amore. Il Figlio conosce il Padre e vede la sua perfezione all’interno del suo amore filiale. La sua visione è piuttosto una condizione che un atto, è la chiaroveggenza del suo amore e della sua obbedienza. Ed è dunque nell’amore al Padre che egli stabilisce la misura tra Dio e uomo e getta il ponte tra i due. Non adatta il Padre al mondo, bensì mostra al mondo il Padre nella sua assolutezza. E con la propria vita dimostra che gli uomini possono vivere come Dio lo vuole: nell’amore per il Padre assoluto. Che il Figlio nella sua umanità sia perfetto, è un onore reso al Padre, perché in tal modo egli giustifica la creazione del Padre. Ma la sua perfezione è un atto e una prestazione del suo amore per il Padre e per gli uomini. Il suo amore è tanto grande da riuscire a rappresentare nella sua vita la santità del Padre in una figura umana.
La sua non è una santità vissuta nel lungo silenzio di un pio raccoglimento, lungi dalle occupazioni della quotidianità. La sua santità è sempre uguale a sé stessa, in ogni situazione della sua vita. È uguale a sé stessa perché è sempre uguale al Padre. Ed è uguale al Padre perché sempre emana dal suo amore e torna nel suo amore. E poiché il Figlio vive come uomo questa santità del Padre fino all’obbedienza della morte di croce, può comunicarla, nella grazia, anche ad altri uomini. Ogni volta che presenta un’esigenza agli uomini, lui stesso l’ha già adempiuta, e attingendo a questo adempimento le conferisce la forza di poter essere compiuta, dà alla sua Parola di volta in volta la massima prossimità al Padre. Non c’è un luogo dove l’uomo possa essere più vicino al Padre che nella Parola del Figlio. E se lui addirittura comanda: «Siate come il Padre!», è come se in quel momento gettasse gli uomini direttamente nelle braccia del Padre. Riduce a nulla la distanza facendosi lui stesso la distanza colmata, lui che è il Figlio e al tempo stesso la Parola.
Tutte le parole del Signore sono pronunciate in una determinata situazione storica, che nella maggior parte dei casi ci è nota. Ma sono valide, al di là di quella situazione, in ogni nuovo singolo istante, perché nella situazione storica traluce il bagliore di una situazione eterna, perché il Figlio porta da sempre in sé queste parole come espressione della sua essenza e nessuna di loro è in alcun modo in contraddizione col suo eterno amore del Padre. Le sue parole sono per così dire adattate alla nostra storicità, affinché noi, che siamo uomini terreni, possiamo percepirle, ma non sono adattate alle leggi del nostro tempo, perché sono parole che portano il nostro tempo nell’eternità; perciò il loro suono non si smorza nel tempo finendo per cessare del tutto. Quelle parole sono la vita eterna, perché sono l’amore del Figlio per il Padre e riconducono tutto al Padre.
Il libro della Scrittura è per noi un oggetto quotidiano, attraverso cui in qualsiasi momento possiamo imbatterci nell’eterna Parola del Figlio. Ma non incontriamo questa Parola soltanto mentre leggiamo; essa può restare impressa nella nostra memoria e mediante la nostra volontà possiamo presentarcela vivamente in ogni momento. Può diventare la misura del nostro agire, l’involucro che avvolge la nostra esistenza, e sviluppare una tale vivacità da farsi in un certo modo più viva della nostra stessa vita. Può prenderci dentro di sé e tenerci costantemente nella sua protezione. Anche come esigenza, certo, ma prima di tutto come amore. Se questa intuizione si fa viva in noi, arriva il momento in cui tutto ci spinge a tentare una piena obbedienza. Non solo a pensare spesso e con devozione a Dio, non solo a osservare uno per uno i suoi comandamenti, bensì ad avere come costante compagnia della nostra vita l’enorme vicinanza del suo Essere assoluto, e a vedere in ciò il suo amore, e nell’amore la richiesta di amare. A rimanere in qualcosa che non comprendiamo (e chi mai potrebbe pensare di comprendere l’assoluto?), ma nella disponibilità, appunto perché non comprendiamo, ad essere in ogni momento così come Dio si aspetta da noi, lasciando a Lui di plasmare la nostra disponibilità per trarne la perfezione.
E poi c’è la santità dei santi nella Chiesa. La loro santità consiste nel fatto che essi si muovono costantemente – e si lasciano muovere – all’interno dell’assoluto. Nel fatto che non conoscono la parola «abbastanza». Nel fatto che neppure hanno dei metri di misura. Nel fatto che vivono in un costante dialogo con Dio, nel quale continuamente ricevono da Dio la direzione da prendere, una direzione che, anche se non ci è sempre del tutto chiara, in ogni caso ha sempre per suo fine la volontà di Dio. In qualcosa i santi sono nella loro vita una specie di prosecuzione della vita terrena del Signore. La loro vita si può raccontare e ricostruire, è composta di numerosi fatti e circostanze, e non è priva dell’impronta della loro personalità. E però tutto questo è come secondario. Ciò che viene prima, l’unica cosa essenziale, è che l’anima sia tutta orientata e tesa verso Dio – un dare carta bianca e lasciar fare a Dio nell’anima –, che fa apparire tutto il resto soltanto come un’esigenza di quest’unica cosa. Anche i santi hanno la loro quotidianità, come il Dio incarnato l’ha avuta. Ma se sono davvero santi, lo sono perché questa quotidianità è divenuta espressione della cosa meno quotidiana, meno abituale di tutte: dell’eterna vita del Padre, della sua volontà in loro e attraverso di loro. I santi ardono del fuoco della vita eterna. E quando ci occupiamo di loro o abbiamo a che fare con loro non dobbiamo smorzare questo fuoco. Non dobbiamo rimpicciolire i santi. Ci è dato di guardare nella loro vita quotidiana. Possiamo spingere lo sguardo nella canonica di Ars o nel carmelo di Lisieux fin quasi a dimenticare la santità di coloro che hanno abitato questa quotidianità. Bisogna evitare questo pericolo. Bisogna evitare che la foga di «umanizzare» i santi, come oggi è di moda, ci porti a non vedere o a sottovalutare la grandezza del dono che in loro Dio ha fatto alla Chiesa e al mondo. Le cose cambiano se si ricolloca la loro quotidianità nel quadro del loro confrontarsi con Dio: allora ciò che ai nostri occhi pare il tranquillo corso di una vita normale si svela essere un continuo venir lavorati da Dio, e un costante abbandonarsi e lasciarsi lavorare. Allora non si considerano più gli aspetti relativi che può avere anche la vita di un santo, l’anima e la coscienza di un santo, bensì si contempla l’azione di Dio nella sua non misurabilità. La vita quotidiana con tutto ciò che la riempie non è allora niente più che una cornice per l’altra, l’autentica vita del santo, è qualcosa che ci permette di situare questa realtà inafferrabile. Ma anche questo situare è importante solo nella misura in cui ci conduce alla non situabilità di Dio. I santi vivono già quaggiù nella vita eterna; in effetti, nel momento in cui varcano la soglia della vera santità sono già maturi per il cielo, e di per sé non ci sarebbe più bisogno, per loro, di vivere sulla terra. Se continuano a farlo, è una specie di loro libera scelta, per gli altri – come il Figlio ha vissuto volontariamente tutta la sua vita quotidiana sulla terra: per servirli con il loro amore, i loro sacrifici, le loro sofferenze, e anche per donare agli altri la loro via (san Francesco la via della povertà, sant’Ignazio quella dell’obbedienza, santa Teresa la piccola via), come il Figlio ha donato a noi tutti la sua via divina.
Anche i santi non sono che una illustrazione della santità di Dio. La santità dei santi non può venir considerata nemmeno un istante di per sé e a prescindere dalla santità di Dio. Essi vivono della santità di Dio. E dato che questa è sempre infinita, è impossibile paragonare la santità di singoli santi e soppesare quella di uno contro quella di un altro. La santità è sempre una sola e indivisibile, perché è in Dio. Così come anche la Parola e l’amore che ci dischiudono la santità di Dio sono sempre una cosa sola e indivisibili. Per avvicinarsi a Dio si deve procedere dall’alto, cioè farlo a partire da lui stesso. Cercare di farlo dal basso, allineando singoli atti di virtù uno dopo l’altro e a un certo punto voltandosi a guardarli come un risultato raggiunto, sarebbe fare come un bambino che sale in piedi su una sedia per cercare di afferrare il sole. Anche i santi non sono in primo luogo una scala a pioli per noi, bensì sono dei segni. Segni del fatto che Cristo vive. Stanno in un rapporto immediato con l’Incarnazione di Cristo. Sono materiale rivelato e totalmente dato. Per i veri santi la vita sulla terra dev’essere un tormento: sono consumati dal desiderio di vedere Dio. Ma rimangono quaggiù, per obbedienza. È perciò che sono così vicini all’obbedienza di Cristo sulla terra. Insieme a Cristo santificano la vita di tutti i giorni. La santificano attivamente perché la loro vita quotidiana è passivamente santa, in un’azione che sgorga dalla contemplazione. La loro vita è un atto di amore all’interno dell’amore del Figlio per il Padre.
Il Figlio è venuto per riportare il mondo al Padre, e in questo atto ha dimostrato il suo infinito amore per lui. Ma non vuole dare questa dimostrazione da solo. Egli la dà in modo divino e perfetto, ma al tempo stesso aprendo una porta, invitando a farlo con lui. Come se ciò che egli fa non sia soltanto la sua azione unica e irripetibile, bensì al tempo stesso in tutto e per tutto un segno del suo essere eucaristico e della sua volontà eucaristica. Egli vuole che Dio Padre riconosca in quelli che lui ha redento l’amore degli uomini per il Padre. E perciò dona a tutti i credenti il proprio amore. Non possiamo mai considerare questo amore del Figlio come qualcosa di concluso, altrimenti contravverremmo al suo comandamento dell’amore. Lui ci ama per insegnarci ad amare. E nei suoi santi questo amore vive con una fiamma che procede dal suo fuoco ed è ad esso paragonabile. E così ciò che dei santi noi possiamo percepire e comprendere si fa per noi sempre di nuovo una percezione e comprensione dell’amore tra Padre e Figlio; una percezione e comprensione che però non può mai restare al livello dell’esperienza estetica, bensì comporta un’esigenza immediata: ci è chiesto di partecipare, di essere presenti, di amare gli uomini e il Padre insieme al Figlio. Quella santità nella vita quotidiana che è a noi accessibile consiste in questo: che siamo degli invitati cui è concesso, mediante il Figlio, di partecipare amando alla perfezione del Padre.
Adrienne von Speyr
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Heiligkeit im Alltag
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