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Prefazione al commento a Giovanni di Adrienne von Speyr
I
Quest’opera sul Vangelo secondo Giovanni si presenta come una esposizione contemplativa. Contemplativa nel senso che è nata dalla contemplazione per la contemplazione. Contemplazione significa – e questo è ciò che la differenzia dalla ricerca scientifica – quell’atteggiamento che, pregando, cerca di penetrare e discendere nelle profondità divine della Sacra Scrittura: un atteggiamento caratterizzato piuttosto dall’apertura – nella ricettività e nell’ascolto attento – che da un creativo constatare e determinare; un atteggiamento dunque attento più allo Spirito vivente che alla lettera del testo, tale da indurre il lettore alla preghiera piuttosto che alla conoscenza del ricercatore. Un simile approccio verso la parola di Dio non è affatto motivato da un disprezzo per l’esegesi rigorosa; ma senz’altro è animato dalla convinzione che anche lo studio più valido sulla Sacra Scrittura secondo i metodi e i criteri della scienza umana non potrà mai essere se non un lavoro preparatorio, che non fa che condurre colui che cerca all’atteggiamento ultimo, e decisivo, nei confronti della Parola di Dio: all’atteggiamento di Maria di Betania che in silenzio siede compresa e assorta ai piedi del Maestro divino per accogliere nella fede la sua parola come ciò che essa è in verità – la parola infinita dell’Amore eterno che supera ogni capacità di comprensione umana.
Il contenuto del Vangelo – e in particolar modo di quello di Giovanni – è l’amore di Dio che si dischiude e dona a noi: l’amore tra Padre e Figlio nello Spirito Santo, che sin dall’eternità è vita inconcepibile, miracolo sempre nuovo, gloria che tutto illumina, e ai cui misteri, per amore, il Verbo del Padre ci ha iniziato. Il Figlio è apparso in forma umana per dire la parola dell’amore, compiere l’opera dell’amore e fondare il regno dell’amore. Ma poiché il contenuto della sua rivelazione non è altro che l’amore, solo chi ama può comprenderlo. La verità che qui si rivela, la verità nel suo senso ultimo e decisivo, che è l’amore, non può essere accessibile se non a coloro che amano. Al di là di ogni arido sapere che fuori dell’amore possa darsi su Dio, l’affermazione del discepolo dell’amore resta di una validità adamantina: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,8). Perciò, un commento alla Scrittura non può avere un intento più urgente, né un presupposto più elementare per la comprensione del testo da spiegare, che quello di risvegliare l’amore nell’anima di quanti sono determinati a comprendere il contenuto della Rivelazione. Ma quest’amore che è per così dire l’apriori di ogni comprensione della parola di Dio, non è un amore qualsiasi, come lo si intende di solito tra gli uomini, bensì proprio quell’amore col quale Dio stesso ci ha amati in Cristo e che ci viene donato come nostro nel dono dello Spirito Santo. Giacché «in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10). E poiché la comunicazione viva di quest’amore è opera creativa di Dio stesso, alla contemplazione espositiva della sua parola non rimane che questo compito: richiamare incessantemente e risolutamente l’attenzione sul miracolo di questo amore, contemplarlo da ogni parte, approfondirlo, lodarlo e adorarlo affinché – nella misura in cui questo è consentito alla parola umana – un’anima o forse molte anime possano crescere nella conoscenza e nel riconoscimento dell’amore. E dunque si tratterà, dove si parla dell’amore, non dell’amore dell’uomo, dei suoi tentativi o sforzi, della sua morale o ascesi, della sua perfezione raggiunta o ancora da raggiungere, delle sue elevazioni mistiche o dei gradi d’esperienza raggiunti: laddove si tratta dell’amore bisogna invece dare testimonianza dell’amore di Colui che ci ha amati incomparabilmente quando ancora eravamo peccatori. Così come il Signore quasi non parla mai del suo proprio amore, bensì solo dell’amore del Padre, allo stesso modo nessuno dei suoi tace sul proprio amore quanto il discepolo amato Giovanni. Amando, egli indica Colui che lo ha amato, a tal punto che tutta la sua esistenza come apostolo non può ormai essere altro che una rivelazione dell’amore del suo Signore. «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1 Gv 1,1-4). Così il Discepolo che ama cerca di trasmettere ad altri l’amore che ha visto e sperimentato e che lo ha coinvolto nella comunione d’amore tra Padre e Figlio – ogni amore infatti viene donato soltanto per essere subito ridonato ad altri –, e così di ampliare la sfera dell’amore di Dio, di accendere a questa fiamma nuovi cuori, e per questa via, conformemente al compito datogli dal Signore, di portare nel mondo la conoscenza cristiana di Dio, ovvero la fede.
La verità del Vangelo è dunque l’amore di Dio, e questa verità la intende solo chi personalmente ama, chi ha vivo in sé l’amore di Dio. Così una esposizione del Vangelo di Giovanni non potrà essere né valida né feconda se non si metterà insieme all’Apostolo al servizio dell’amore: osservando e ascoltando e toccando l’amore di Dio per annunciare e testimoniare ai fratelli ciò che ha osservato, udito e toccato, affinché essi, amando, comprendano meglio l’amore. Così, solo colui che parla dall’interno dell’amore ne parla in modo oggettivo. E solo se con l’amore del Signore si riesce a rendere comprensibile l’amore, a tal punto che chi ascolta comincia egli stesso a praticarlo, si è raggiunto l’obiettivo di una esposizione del Vangelo. Solo se l’apertura contemplativa dell’ascolto trova il suo compimento nella missione cristiana attiva, solo se la conoscenza dell’amore di Dio diventa amore fattivo verso Dio nel prossimo, l’annuncio che Giovanni ci trasmette da parte del Signore è stato veramente accolto e compreso come verità. Non ciò che l’uomo concepisce da sé stesso e in sé stesso sul Verbo della vita è interessante di quel Verbo, bensì ciò che egli, contemplando in un atteggiamento di apertura amante verso questo Verbo, apprende e realizza fattivamente. Solo in questo atteggiamento l’uomo è dischiuso alla verità che qui deve essergli comunicata, anzi lo stesso atteggiamento d’amore è il segno che egli ha compreso la verità.
Naturalmente l’incredulità, che non crede nell’amore di Dio e che vede nella Scrittura solo un documento storico fra altri, non si sente obbligata ad avvicinarsi alla verità che qui si dischiude altrimenti che con i metri e gli strumenti di misura della comune scienza umana e secolare. L’incredulità non vede alcun motivo per andare incontro alla parola di Dio con amore invece che con un giudizio critico. Essa deve citare in giudizio la verità di Dio come ogni altra verità davanti al Gabbatha del pensiero umano, e – magari soffocando la stanca domanda «Cos’è la verità?» – mettere alla prova la Parola del Padre con i suoi innumerevoli reagenti: ossia cercare di irreggimentarla nel quadro della scienza che l’uomo ha già «acquisito», attraverso metodi filologici, storici, geografici, archeologici, orientalistici, etnologici, sociologici, filosofici, psicoreligiosi, etc. i cui risultati sono già più o meno consolidati.
La fede invece non si avvicinerà affatto al Verbo della vita con concetti belli e fatti. Non presumerà di sapere già cosa le sarà detto: di sapere già cos’è l’amore. Giacché «in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi». E la fede non è quello che noi pretendiamo di credere riguardo a Dio, bensì ciò che Egli ci dona di credere e ci propone a credere. E la verità non è ciò che noi ci immaginavamo su Dio senza di Lui (àtheoi, Ef 2,12), bensì ciò che Lui ci ha dato di riconoscere della verità che Egli è. La fede non presumerà di avvicinarsi alla Scrittura con l’idea di sapere già cos’è la verità. Essa sa piuttosto che qui le viene incontro qualcuno che dice di sé stesso che Egli è la verità (Gv 14,6), che nella sua incarnazione risiede la pienezza della verità (Gv 1,14), una verità che conoscerà soltanto colui che è suo discepolo e rimane fedele alla sua parola (Gv 8,31). Uno che si presenta con una tale pretesa non è disposto ad assoggettare la sua verità assoluta alla sentenza del tribunale di una verità terrena e finita; piuttosto, esige la disponibilità di un’abnegazione e donazione amante, che nella contemplazione lascia che il seme della Parola cada su un terreno vergine – la disponibilità della stessa Madre del Signore, che nell’umiltà della serva si è dischiusa a questa Parola, e la cui azione è stata di lasciarla crescere nel suo cuore nella preghiera e nella contemplazione. Nei confronti di questa Parola non c’è nessun altro metodo adeguato all’oggetto, che garantisca una conoscenza oggettiva della sua verità. Qui è giusto solo ciò che è orientato alla verità divina con tutta la sua esistenza. Giacché la Parola di Dio è una cosa sola con la sua vita eterna. Solo tendendo con amore all’unità tra fede e azione, conoscenza e vita, solo nell’adeguamento sempre incoativo alla verità del Signore che è essa stessa unità indivisa di Via, Verità e Vita un uomo ha la garanzia di guardare nella direzione in cui si può trovare la verità della Parola che è oggetto di questa esposizione.
Perciò il presente commento è un commento orante-contemplativo. È un tentativo – e quale sforzo di ricerca della verità eterna sarà mai altro che un misero tentativo? – di muoversi all’interno della verità che qui si manifesta, senza restringerla riportandola a criteri puramente mondani. Ma la verità di Dio è infinita; essa tracima ogni limite umano. In ogni parola del Signore è nascosta e custodita la verità tutta intera. Non è che queste parole si completino a vicenda, come verità parziali, fino a formare un sistema chiuso. Perciò questa esposizione rinuncia a qualsiasi tentativo di giungere a una sistematica o a una disposizione finita. Sa che non c’è schema che possa catturare la Parola del Padre. Contemplando, si lascia guidare dalla Parola stessa. Parola dopo parola, versetto dopo versetto essa cerca di percepire quanto della pienezza infinita può entrare nella piccola coppa umana. Si avvicina con ciò in modo nuovo al metodo del commento teologico consueto ai Padri della Chiesa dei primi secoli e dell’Alto Medioevo. Costoro erano talmente consapevoli dell’infinità della verità divina e dell’assoluta vitalità del suo contenuto che si muovevano al di là dell’opposizione tra «spiegazione scientifica» e «applicazione edificante». Teoria e pratica, insegnamento ed edificazione formano un tutt’uno al punto che non viene neanche in mente di separarli. Né può esserci in quest’unità sovrabbondante un’opposizione tra il senso letterale e storico, e quello spirituale che in esso si cela. Giacché la Parola, che è Spirito, si è fatta carne e ha manifestato ed espresso la pienezza delle verità eterne e spirituali di Dio nella carne temporale e letterale. Il senso spirituale della Scrittura non si trova dietro la lettera, bensì immediatamente in essa, manifesto alla fede e celato all’incredulità; manifesto alla fede, però, solo nell’infinità nascosta della verità divina: la quale, perché la si cerchi ancora anche dopo averla trovata, è infinita (Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, Omelia 63).
Ma questo senso spirituale della Scrittura si dischiude solo nello Spirito Santo, e questo Spirito il singolo lo possiede solo nella misura in cui è un membro della Chiesa, la quale possiede lo Spirito del Signore. Un commento alla Scrittura non può dunque essere altro che un commento ecclesiale. E ciò in un senso duplice: da un lato, dev’essere pensato e composto partendo dallo spirito della Chiesa, e dunque, anche laddove non la menziona esplicitamente, attingere alla pienezza e ampiezza della Tradizione ecclesiale. Dall’altro, però, deve anche spiegare la stessa Scrittura in vista della Chiesa e dandola alla Chiesa. Giacché è soltanto nella Chiesa che la parola di Dio è viva. Il commento non può considerare la Scrittura come un sistema chiuso di parole e frasi e voler edificare l’edificio del suo senso divino sull’angusta base della lettera. Ciò sarebbe ricadere nella filologia degli scribi. Piuttosto, deve avere la libertà dello sguardo ecclesiale, che vede nella lettera apparentemente limitata tutta l’ampiezza e la concreta pienezza dello Spirito che si dispiega davanti a lui nella Chiesa. Allora, lungi dall’aver messo nel testo qualcosa che nel testo non c’è, avrà soltanto scorto in esso con gli occhi della fede amante – che sono quelli che in verità vedono chiaro – ciò che altri occhi, meno adatti, sono stati incapaci di vedere. La Parola di Dio vuole essere letta nello specchio della Chiesa, come inversamente la Chiesa non deve contemplarsi in nessun altro specchio se non in quello della Parola di Dio. Così questo commento si soffermerà particolarmente, lasciando che il corso della spiegazione si allarghi come un lago, sui passi in cui la vita ecclesiale lo esige.
II
Ora, con tutto ciò si è anche già lasciato intendere che quest’opera non è semplicemente una contemplazione disancorata e arbitraria, bensì una autentica esposizione. Non per niente è proprio il Discepolo dell’amore che ha guardato più profondamente nella verità di Dio e perciò lo si è chiamato volentieri «il Teologo». Chi cerca di interpretare la Scrittura nel suo spirito non può fare a meno di prendere a cuore egli stesso la teologia. Così anche questa esposizione sarà in tutto e per tutto un commento teologico nel senso fontale del termine. Il suo punto di partenza sarà quello stesso punto dove finiscono i lavori filologici e storici preliminari: ossia dove si iniziano a comprendere le parole e le azioni del Signore come verità divina immediata. Ma se Dio ha rivelato la propria verità in Cristo, lo ha fatto sempre dal punto di vista e con l’intenzione del volgere le anime a lui, e dunque dalla prospettiva dell’amore e in vista di esso. E questo non corrisponde a una considerazione esteriore, condizionata dall’«economia» della Redenzione, ma è insito nell’essenza stessa della verità di Dio, poiché anche in Dio la misura di ogni verità è l’amore tra il Padre e il Figlio nello Spirito. Giacché il «luogo» decisivo della verità in Dio è l’adeguazione dell’immagine, che è il Figlio, al suo modello originario, il Padre, nello Spirito Santo. Ma questa adeguazione è in sé stessa un’opera dell’amore: per amore, il Padre ha donato al Figlio la divinità consustanziale, e per amore, il Figlio non desidera avere altra sostanza che quella del Padre. Qui non si dà alcuna possibilità di anteporre una prospettiva fisico-ontologica a una spirituale-morale, giacché nel puro Spirito le due sono una cosa sola. Se le cose stanno così, anche l’ultimo metro della verità teologica non può essere altro che l’amore. Un tratto che contraddistingue l’essenza di ogni verità è che edifica, il che precisamente vuol dire appunto che essa è feconda nell’amore; mentre il segno della menzogna è che distrugge e disgrega. Ed è da questo punto di vista che è stato concepito il presente commento. Esso è ben lungi dallo sviluppare ogni verità contenuta nel Vangelo di Giovanni. Ma la sua selezione è basata ovunque sull’amore. Chi nella spiegazione di una sezione non trova ciò che credeva di dovervi cercare, si chieda se ciò che egli ha cercato e non ha trovato sarebbe stato più importante, dal punto di vista dell’amore, di ciò che gli è stato offerto.
Il criterio di selezione è quindi l’amore. Per questo il commento cercherà di mostrare contenutisticamente le molteplici forme dell’amore manifestate nella Rivelazione. Anzitutto l’amore tra Padre e Figlio nello Spirito. Quest’amore è così ricco, così multiforme, così inesauribile e continuamente rinnovato da costringere anche il commento più esauriente ad ammettere, alla fine, di non averne trasmesso neanche una vaga idea. Poi si tratterà della comunicazione di quest’amore di Dio al mondo. Del donarsi del Figlio al Padre e al mondo nell’opera della Redenzione. Dell’intima essenza di questa Redenzione come missione, come rappresentazione dell’amore di Dio in forma d’uomo, come sofferenza che giunge fino allo stato di abbandono da parte di Dio, e come risurrezione. Della mancata accoglienza dell’amore di Dio da parte degli uomini. Delle vie e delle maniere infinitamente multiformi e varie in cui i rapporti tra Dio e uomo si instaurano e si edificano, e dunque della ricchezza vitale di fede, amore e speranza nell’anima. Non si prendano queste descrizioni approfondite per «psicologia»; si tratta piuttosto della teologia viva dell’atto di fede in tutta la sua concretezza e perciò anche nel suo esprimersi in forme particolari, come ci viene mostrato in maniera esemplare nei rapporti del Signore con gli uomini che egli incontra. Il mondo della grazia che si dispiega come fede, amore e speranza è infinitamente più ricco e multiforme di tutte le leggi della creazione terrena messe insieme. La pienezza di questo mondo esteriore, che un gran numero di scienze si dedica ad investigare, non è che una immagine della ricchezza straripante del vero universo dell’amore; e ciò che di queste leggi il commento più approfondito riuscirà a rivestire di parole e concetti sembrerà sempre un nulla a paragone di tutta la profondità del mistero. Infine, si parlerà della Chiesa come la prosecuzione vivente ed efficace dell’opera redentiva di Dio. Anche qui non si tratterà tanto di una ecclesiologia astratta e schematica, quanto di tutta l’ampiezza della sua vitalità interna nell’amore e come amore: dei sacramenti come sorgenti della vita dell’amore; della missione come forma fondamentale dell’esistenza cattolica; dei due stati: stato di vita nel mondo e stato di vita consacrata come forme fondamentali dell’amore; delle due forme interiori della vita cristiana: azione e contemplazione; del rapporto tra ministero e amore; e infine della realtà della sostituzione vicaria nell’amore, assolutamente decisiva per tutta la vita ecclesiale. In tutto ciò sono incluse la realtà dei santi come pure quella di tutti i doni carismatici nella Chiesa, di tutte le forme di preghiera, delle realtà ordinarie e straordinarie, «mistiche», che si possono interpretare solo nel quadro ecclesiale del ministero e della vicarietà. Se mai ci sono argomenti per cui vale il principio che il «come» dell’espressione condetermina il contenuto espresso, questi sono senz’altro di quel genere. Perciò nell’opera si presti continuamente attenzione agli accenti con cui essi sono trattati, e, non da ultimo, a ciò che su di essi non viene detto. Il silenzio sarà un’indicazione della linea da seguire tanto quanto il parlare.
Dal concorrere delle singole parti risulterà, considerando l’opera nel suo insieme, un tutto ben rotondo, una specie di «summa dell’amore». Ma dato che si parla sempre dell’amore di Dio, che in ogni pagina rimane il principio guida, ciò che dà il tono – e allora il nostro amore non sarà se non qualcosa che è coinvolto in un secondo passo, come risposta e sequela, nell’unico amore di Dio –, il commento presenta consapevolmente e marcatamente una veste oggettiva e discreta. La lingua non sarà né fiorita di retorica né trascinante sul piano estetico. Si adeguerà alla semplicità, anzi addirittura alla scarna secchezza della lingua di Giovanni. Questo commento non reclama il titolo di opera letteraria; rimane un libro che non auspica altri lettori che quanti desiderano una guida all’approfondimento orante e contemplativo delle meraviglie dell’amore di Dio. A tale compito si piega anche la traduzione del testo evangelico che qui si offre, la quale vuole essere il più possibile semplice, letterale e conforme al senso, rinunciando a qualsiasi splendore linguistico.
III
Ma il proposito di questo commento non è un’interpretazione della parola di Dio nella sua totalità, bensì solo del Vangelo di Giovanni. La rivelazione divina si è servita di recipienti umani per rappresentare la sua pienezza infinita. Si è degnata di illustrare il mistero del pellegrinaggio terreno del Figlio di Dio servendosi del mezzo di quattro personalità umane. Se è vero che la particolarità di questi quattro uomini comporta da un certo punto di vista una limitazione della pienezza divina, sotto un altro aspetto però questa particolarità costituisce anche il contenitore che accoglie e rende possibile la manifestazione di un aspetto ben determinato dell’essenza divina. Il «carattere giovanneo» nel Vangelo di Giovanni non deve essere valutato come un ingrediente umano o una rifrazione oscurante del messaggio evangelico, il quale dovrebbe perciò esserne liberato con un qualche metodo che consenta di avvicinarsi all’essenza oggettiva di Cristo. Giacché proprio in questa essenza giovannea il Signore ha voluto manifestare la sua propria essenza. Tanto è illecito assolutizzare un qualsiasi autore della Bibbia o accordargli una preminenza essenziale rispetto agli altri, quanto è permesso invece interpretare e spiegare Giovanni a partire da Giovanni e mediante Giovanni. Anzi, questa sarà addirittura la strada maestra, la più ovvia e indicata. Il Vangelo di Giovanni è un mondo infinito in cui ogni punto si riferisce a tutto il resto, in cui si deve interpretare ogni cosa con tutte le altre. Il presente commento si propone di tentare una tale interpretazione. Un segno che questo tentativo non è fallito lo si avrà se si potrà constatare che questa interpretazione, di per sé anzitutto immanente al quarto Vangelo, ha come risultato di aprire nel contempo tutte le porte a una comprensione più profonda delle altre parti del Nuovo Testamento, di superare ogni opposizione tra Giovanni e i Sinottici, tra Giovanni e Paolo, Pietro o Giacomo.
Esiste qualcosa come una forma mentis giovannea. È più facile sperimentarla che descriverla. Forse si può dire che essa si fonda totalmente sull’essenza trinitaria dell’amore di Dio, la quale contiene in sé nel contempo il circolo assolutamente chiuso dell’amore e il suo assoluto, infinito e inarrestabile effondersi e accrescersi. Questi due lati della vita divina che c’è tra Padre e Figlio nello Spirito diventano manifesti al mondo nell’incarnazione del Figlio, nell’apparire della luce divina nelle tenebre di questo mondo. In questo apparire della luce si rivela il carattere di chiusura dell’amore divino, in quanto è soltanto all’interno della vita del Figlio, e cioè all’interno di fede, amore e speranza, che per l’uomo è possibile vivere una vita vera e che ogni compromesso tra luce e tenebre, fra fede e incredulità, fra Chiesa e mondo è totalmente rifiutato. Questo passaggio è un salto: chi non vuole entrare in questo circolo, quand’anche possedesse le più elevate facoltà di pensiero o di moralità, rimarrebbe inevitabilmente fuori. In tutti i discorsi del Signore con i Giudei questo aut aut viene presentato e sviluppato con una incisività senza pari, laddove va notato che i Giudei (anche in questo commento) sono sempre e soltanto i rappresentanti dell’incredulità universale umana di ogni tempo. D’altro canto, però, questa luce che brilla nelle tenebre, anche e proprio come luce dell’amore, è la cosa più aperta che ci sia. Essa viene per effondersi nelle tenebre, per eliminare ogni confine fra queste e sé stessa, e non si dà pace finché, attraverso la notte della Passione, non abbia trasformato in luce ogni tenebra di questo mondo. Questo carattere antitetico del pensiero giovanneo non fa che metterci davanti agli occhi lo stesso immenso mistero dell’amore divino, che rimane il contenuto onnipresente e unico di questo vangelo.
Ora, poiché il carattere giovanneo è stato impiegato da Dio stesso per rivelare un aspetto del suo essere ed è stato dunque in qualche modo dilatato fino alle dimensioni di Dio stesso, esso possiede un’ampiezza e una pienezza che solo nel corso della storia della Chiesa si è andata e va dispiegandosi. Non si può vincolare questo carattere giovanneo a nessuna singola epoca o regione della Chiesa Cattolica, anzi esso si è presentato in forme sempre nuove a seconda dei tempi e dei luoghi. Un commento che cerca di interpretare Giovanni mediante Giovanni dovrà rendere conto anche di questo aspetto. Un tale commento dovrà dare prova della sua autenticità proprio nel punto in cui si apre lo strappo infausto e tuttavia illusorio tra una Chiesa orientale pretesamente giovannea e una Chiesa occidentale pretesamente paolino-petrina. Il commento dovrà fornire la prova vivente che tutte le verità tramandate nella Chiesa orientale e nella sua antichissima tradizione non sono affatto in contrasto con le intuizioni più vive della Chiesa romana e che perciò l’aspetto giovanneo è tanto occidentale quanto orientale. Ogni conoscitore della tradizione orientale potrà appurare senza fatica che le decisive intuizioni fondamentali giovannee dei Padri della Chiesa orientali – tanto degli Alessandrini quanto dei Cappadoci – non sono affatto estranee a quest’opera, in cui piuttosto risultano centrali, e che proprio questo possesso così naturale e ovvio del vero tesoro giovanneo dell’Oriente le dà la possibilità di tenere lontani gli errori delle chiese orientali.
Sarà invece meno evidente, e per più di un lettore sorprendente, scoprire fino a che punto d’altra parte Giovanni comprenda in sé anche la tradizione occidentale, quanto vana appaia in questa luce quell’opposizione artificiale fra Giovanni e Paolo o fra Giovanni e Pietro che una scienza litigiosa e incredula vorrebbe stabilire. La profonda unità tra Giovanni e l’occidente romano si potrebbe illustrare mediante tutta la tradizione occidentale, da Agostino passando da Tommaso fino a Newman; e forse niente dimostra in modo più irrefutabile questa profonda unità quanto il fatto che persino la forma mentis apparentemente più occidentale nella Chiesa, quella di Ignazio di Loyola, nel profondo si trova a coincidere perfettamente con quella di Giovanni. Santa Maria Maddalena de’ Pazzi ha saputo guardare più in profondità di tutti coloro che hanno giudicato superficialmente la Compagnia di Gesù quando ha osato affermare: «Lo spirito di Giovanni e quello di Ignazio sono un solo e identico spirito».1 Quanto ciò sia vero lo dimostra proprio il presente commento, nel quale si vedrà che l’aspetto giovanneo e quello ignaziano sono così intimamente uniti l’uno con l’altro che ogni tentativo di separarli sarebbe vano.
Infine, possiamo ricordare quelle forme di pensiero che hanno secolarizzato e mondanizzato il vero carattere giovanneo, ma che pur sempre devono a questa loro origine tutto lo splendore e la profondità che ancora gli rimane: il panteismo teologico di uno Scoto Eriugena, e quello filosofico di un Fichte, uno Schelling e un Hegel. Qualcosa di quello che viene detto in questo commento sul senso del mondo, sul movimento dello Spirito e sull’essenza della verità salva le intenzioni decisive di questi sistemi, senza cadere nei loro aspetti problematici. In generale si può dire che nelle pagine seguenti non sarà soltanto la teologia a trovare nuovi stimoli, bensì anche la vera filosofia cristiana dell’analogia entis, foss’anche soltanto in virtù del modo in cui qui si distribuiscono i pesi, si trattano le prospettive, si impiegano le luci e le ombre.
Il commento tratterà i versetti progressivamente, uno dopo l’altro. In ciò emergerà quanto sia vantaggioso per il testo non costringerlo in un contesto sistematico che lo coarta, quanto si debba prendere ogni singola parola del Signore in sé e per sé e col suo pieno peso. In virtù del suo carattere contemplativo, il commento si prenderà anche la libertà di soffermarsi più a lungo su certi versetti e di aprire, a partire da certi punti nevralgici, una panoramica che abbraccia nessi più ampi di quelli che sembrano risiedere nella mera lettera. È quello che accade per concetti come «inizio», «parola», «vita», «luce», «oscurità», «notte», «cecità», «fede», «verità», «testimonianza», «missione», «amore», e per altre parole-chiave giovannee. Ciò vale soprattutto per il prologo, che nel commento occupa un posto speciale. È trattato in modo più ampio rispetto al testo successivo, perché qui si toccano in anticipo le tematiche di fondo, che vengono anche sviluppate con una certa libertà e ampiezza rapsodica. È come un primo giro panoramico attraverso il regno dell’amore; il prologo desidera per così dire accendere il gusto per questa nuova verità, e sta al testo successivo come il periodo del fidanzamento sta a quello del matrimonio, o come l’ouverture sta all’opera di cui anticipa liberamente i temi. Qui il commento sembra perciò allontanarsi tantissimo dal contenuto insito nella lettera. Ma anche questo allontanamento è soltanto apparente. Proprio qui si deve tener ben presente il fatto che Giovanni nel suo prologo non annuncia verità astratte e filosofiche, piuttosto vuole presentare, con una prima visione di insieme, la concreta figura di Cristo e la sua concreta opera di Redenzione, che trova compimento soltanto nella vita di fede del cristiano, nella Chiesa e nei suoi sacramenti. Quanto questo modo di interpretare il prologo sia appropriato, sarà pienamente manifesto quando l’opera sarà disponibile per intero.
All’ultimo volume si allegherà un indice tematico che consentirà di raccogliere le osservazioni sparse su un singolo argomento.
Poiché questa esposizione si è data come regola di soffermarsi, contemplando e amando, su ogni parola del Signore e su ogni osservazione su di Lui, di comprendere ogni parola del Vangelo come una rivelazione del Verbo che era in principio e perciò di lasciarsi da Lui portare sempre di nuovo al principio, essa, come il testo che commenta, si può leggere aprendo una pagina o un capitolo qualsiasi. Chi trova un passo troppo difficile – ad esempio le prime sezioni del prologo – troverà in un altro passo – forse in quello della Samaritana o in quello del Buon Pastore – ciò che gli consente un accesso, e più tardi tornare con una comprensione maggiore a ciò che si dice nel prologo.
Anche questo commento resta, come ogni altra esegesi della parola di Dio, un frammento e un tentativo. Se volesse essere più di questo dimenticherebbe che la verità divina è infinita e che ogni parola e ogni azione del Signore racchiude in sé un senso inesauribile. Perciò, questa interpretazione del Vangelo considera il suo più alto compito aprire gli occhi dell’uomo del nostro tempo all’infinità dell’amore di Dio, e nel lasciare che, nelle tenebre del tempo presente, in qualche cuore divampi nuovamente la luce di questo amore.
- «Ella vide come Dio in cielo si compiaceva e dilettava tanto nell’anima di san Giovanni Evangelista che, per così dire, non pareva ci fossero altri santi in Paradiso. E vide che altrettanto si dilettava nell’anima del santo Padre Ignazio, fondatore della Compagnia di Gesù. E così diceva chiaro e tondo: “Lo spirito di san Giovanni e quello di sant’Ignazio sono un solo e identico spirito.” E lo diceva perché la ragione di questo compiacimento e diletto di Dio in entrambi questi santi era che lo scopo e il fine di tutti e due era l’amore (amor et caritas) verso Dio e il prossimo e sulla via dell’amore cercavano di portare le creature a Dio» (Monumenta Ignatiana Ser 4. Vol 1,535).↩
Hans Urs von Balthasar
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