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Quel che devo a Goethe
Hans Urs von Balthasar
Original title
Dank des Preisträgers – Prof. Dr.Dr.h.c. Hans Urs von Balthasar
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Specifications
Language:
Italian
Original language:
GermanPublisher:
Saint John PublicationsYear:
2022Type:
Article
Source:
Guerriero, Elio. Hans Urs von Balthasar. Cinisello Balsamo: Edizioni Paoline, 1991, 395–400 [trad. modificata]
Illustrissima assemblea,
voi capirete che per un cristiano, che ha nell’orecchio la parola di Paolo secondo la quale nessun uomo deve vantarsi se non nel Signore, non è facile ascoltare una Laudatio della sua persona. Per questo il suo primo ringraziamento si innalza al Signore. Solo a questo punto egli può ringraziare tutti coloro che gli hanno preparato questa meravigliosa festa: anzitutto il fondatore, il signor senatore Alfred Toepfer che cinquant’anni fa conferì il primo Premio Mozart; poi l’intero consiglio di amministrazione della Goethestiftung: l’attentissimo autore della Laudatio, il signor Heinrich Schmiedinger, l’eccellentissimo signor vescovo Kapellari al quale devo molto ormai da decenni, i reverendissimi abati di Wilten e Mariastein (quale cornice meravigliosa ci ha messo a disposizione il primo!), il sindaco signor Niescher e tutti coloro che hanno contribuito nel modo più degno alla cornice musicale. Dopo l’acuta analisi del signor dottor Schmiedinger posso permettermi di essere assai stringato.
Una cosa è certa: evidentemente ho scritto troppo. Lo noto dal fatto che spesso mi sento rivolgere domande di questo tenore: Cosa devo leggere della sua immensa opera? C’è un modo sensato di accostarvisi? Forse, senza annoiarvi troppo, posso spiegare in breve due cose: in primo luogo, come in tutto ciò che ho intrapreso ho sempre mirato ad una cosa sola; e poi, come mai, mirando a quest’unica cosa, ho ritenuto a un certo punto di dover imprimere alla mia traiettoria una chiara svolta.
La marcia di avvicinamento verso il primo punto fu lunga, ma remunerativa. La mia giovinezza fu segnata dalla musica; ebbi come insegnante di piano una vecchia signora, che era stata allieva di Clara Vick Schumann; fu lei a iniziarmi a quel romanticismo i cui ultimi epigoni – Wagner, Strauß e soprattutto Mahler – ho poi gustato con abbondanza nel periodo dei miei studi a Vienna. Tutto questo terminò quando giunse al mio orecchio Mozart, che da allora non mi ha più lasciato; per quanto negli anni della maturità mi siano rimasti cari anche Bach e Schubert, Mozart è rimasta l’immobile stella polare intorno alla quale muovono gli altri due – l’Orsa Maggiore e la Minore.1
Ma a Vienna non studiai musica, bensì soprattutto germanistica, e quanto vi appresi è ciò che più tardi posi al centro della mia opera teologica: la possibilità di vedere, valutare e interpretare una figura [Gestalt], diciamo lo sguardo sintetico (in antitesi a quello critico di Kant e a quello analitico delle scienze naturali). Di questa attenzione alla figura io sono debitore a Goethe che, emergendo dal caos dello Sturm und Drang, non smise di vedere, creare e valorizzare figure viventi. A lui io sono grato per questo strumento, decisivo per tutta la mia produzione successiva. (Nei dialoghi con Eckermann, che Nietzsche definisce il più bel libro della letteratura tedesca, scopriamo del resto quanto Goethe riconoscesse in Mozart la sua propria capacità di creare figure; egli considerava Mozart, Shakespeare e Raffaello irraggiungibilmente al di sopra di sé stesso).
Questo fu lo strumento insostituibile per tutto quello che sarebbe venuto in seguito. Quando, alla fine dei miei studi, scelsi la carriera ecclesiastica, il posto centrale venne occupato da Gesù Cristo e dalla sua opera, che continua nella Chiesa; e da Cristo come egli stesso si era rivelato: come Figlio e messaggero del Padre divino che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» per ridare la salvezza al mondo che si era allontanato. La cultura tedesca dal primo Medioevo fino all’epoca moderna era stata cristiana, ma a partire dal XVIII secolo si è allontanata sempre più dalle sue origini. Perciò mi si pose anzitutto questa domanda: i grandi sui quali si basa questa cultura più recente, in che rapporto stanno nel loro atteggiamento ultimo, intimo, con l’eredità cristiana? Tutti loro, da Herder e Lessing, passando per Kant, gli idealisti, il gruppo di Weimar, Jean Paul e Hölderlin, Hebbel, Wagner e Nietzsche, fino ai filosofi vitalisti, a Hofmannstahl, Rilke e Scheler? Prometeo e Dioniso contro il Crocifisso: ma non erano crocifissi anche quei due? È la domanda posta dalla mia prima opera in tre volumi, Die Apokalypse der deutschen Seele – un’opera che dovrebbe essere interamente riscritta. Poi, mentre studiavo teologia in Francia, sopravvennero due altri interrogativi, similmente drammatici. Una prima domanda: il modo in cui i grandi padri della Chiesa – Origene, Gregorio di Nissa, Agostino, Massimo – si erano collocati nei confronti della filosofia religiosa greca da Platone fino a Plotino, non era parimenti un gioco di maschere? E infine mi imbattei nei grandi poeti cattolici francesi: qual era il rapporto tra eros e agape nella Scarpetta di raso di Claudel? Quale il rapporto tra socialismo e cristianesimo in Péguy? Come veniva affrontata in Bernanos (Sole di Satana) la questione titanismo-santità? Voi ve ne sarete già accorti: i buoni manuali di teologia, che bisognava studiare per passare gli esami, mi interessavano meno delle tavole di valori della moderna cultura nel suo rapporto con le principali verità cristiane. Da una parte bisognava abbattere gli antichi bastioni della «città santa» terrena (poiché troppe cose si erano ammassate nel frattempo al di fuori delle mura), e dall’altra trasferire la preziosa sostanza dell’antica città nei nuovi quartieri. La cosa più necessaria mi sembravano le trasposizioni, le osmosi di ogni genere. Cristo non aveva forse inviato i suoi discepoli tra tutti i popoli di tutti i tempi? E la Chiesa non è essenzialmente centrifuga, missionaria? Tutto questo mi occupò, grosso modo, nei decenni dal ’30 al ’60, fino cioè all’ultimo concilio, al quale io non partecipai, ma che in alcuni punti confermò la linea che si era presentata ai miei occhi. Ma poi fu necessaria una pausa, una riflessione – e anche questo senz’altro già prima del concilio. Cosa aveva dunque, questa vecchia rocca cattolica, di veramente attraente, anzi di vitalmente necessario, da offrire al mondo? Guardandosi intorno, sembravano accadere due cose. Da una parte una febbrile attività, che si pretendeva «pastorale», di costruzione di ponti, di adattamento del cristianesimo ai gusti della modernità – un’attività che viene portata avanti con energia quasi immutata fino ai nostri giorni. Dall’altra, la percezione, avvertita all’interno come all’esterno, della non credibilità della forma di ciò che si offriva. Si verifica ciò che si può osservare in alcune antiche città della DDR: ritenendolo irrecuperabile, si lascia andare in rovina il centro, per edificare dei mostri di cemento in periferia. E fu ancora Goethe a indicarmi la strada. Ai miei occhi la teologia si presentava come un pericolante palazzo barocco. Anzitutto, le termiti della moderna esegesi avevano divorato tante di quelle travi che i dogmatici cominciavano ad aver paura di abitarvi più a lungo. Ma poi c’è da dire che i distinti trattatelli nei quali era stato ripartito il contenuto della parola di Dio avevano tolto all’insieme ogni figura organica [Gestalt]: un po’ di apologetica («Perché si può e si deve ancora credere?»), quindi i trattati De Deo, De Deo unitrino, Gesù come l’inviato di Dio – un cespuglio particolarmente spinoso, oppure un campo di battaglia fracassato a colpi d’arma da fuoco –, un trattato De Ecclesia, uno sui sacramenti, infine, uno di escatologia, mentre la morale era un trattato costruito a parte; i materiali non mancavano: solo che era del tutto assente una figura [Gestalt] riconoscibile. Vale la pena di esportare questo?
Ecco dunque la parola d’ordine che mi ha guidato: riedificare in modo che dall’«antica verità» abbia origine una figura unitariamente comprensibile, organica, nella quale ogni membro esiga tutti gli altri e la pienezza dia testimonianza dell’indivisibile unità. Cristo rimane incomprensibile se Dio non è in sé unitrino, cioè l’amore, ma anche se la Chiesa non è fatta come è nella sua struttura fondamentale. Ma Dio si dimostra come amore solo se la parola della croce non viene «svuotata», secondo l’espressione di Paolo, e solo alla stessa condizione la colpa, il dolore e la morte ricevono spiegazione. Il no più duro dell’ateismo ha luogo solamente quando si pone come risposta al sì assoluto di Dio al mondo. La salvezza del mondo è universale solo se la Chiesa non viene degradata a un’associazione internazionale. Ogni ultima moda dell’analisi del linguaggio fallisce perché si scontra col fatto che l’uomo non è stato progettato secondo la logica della scienza, bensì secondo quella dell’amore. Dapprima, dunque, bisognava dimostrare il motivo per cui il fenomeno Gesù Cristo è del tutto imparagonabile con ogni altra religione o visione del mondo escogitata dal desiderio umano. Ecco dunque un paio di fili per orientarsi nell’opera cui ho lavorato dal 1961 al 1986, la trilogia che (purtroppo) si è estesa in quindici volumi, nella quale l’«antica verità» viene vista in modo diverso: come figura indivisibile. Un breve Epilogo offrirà una panoramica attraverso l’insieme. Del resto è risultato che una simile presentazione del cristianesimo ne costituiva anche la migliore giustificazione, di modo che il mio primo intento era compreso nel secondo, quello essenziale.
Tuttavia la costruzione non doveva restare monolitica e isolata: perciò ne ho popolato il giardino con numerose statue di poeti, filosofi, in particolare di santi. Tutte dovrebbero dimostrare come si può avvicinare e nello stesso tempo sviluppare dall’interno in modo molteplice, originale e tuttavia convergente il centro che Dio stesso ha modellato. Mi piace impiegare l’immagine di una statua: se è ben modellata, bisogna passarvi intorno perché ad ogni passo offra una nuova visuale restando tuttavia sempre la stessa.
Naturalmente, poiché non solo Dio è in gioco, ma è Lui stesso a condurre il gioco, la forma approntata da Dio, la sinfonia da lui offerta, il dramma da lui messo in scena non possono essere rappresentati come un panorama chiuso, come qualcosa che il nostro sguardo mondano possa abbracciare. Per questo la teologia, allo stesso modo che la filosofia secondo Heidegger, non può essere una scienza, bensì è l’incessante girare intorno al «santo mistero manifesto» [«heilig öffentlich Geheimnis»: Goethe, Epirrhema]. Non è forse vero che di fronte alla stoltezza della croce ogni figura dominabile con lo sguardo va in frantumi? E nondimeno tutto diviene comprensibile proprio a partire da essa; il sole nel quale non si può guardare illumina tutto il resto.
Per questo, nessun teologo può illudersi di riprodurre o anche solo di lodare in modo degno la definitività di Dio con la propria ragione o la propria immaginazione. I veri maestri nella lode esistenziale restano per lui i santi. Per questo il teologo può concludere, ancora una volta, con Goethe:
Se guardo le opere dei maestri, vedo quello che essi han fatto.
Se guardo alle mie carabattole, vedo quello che avrei dovuto fare.
- In tedesco il nome delle costellazioni è al maschile (letteralmente, il Grande e il Piccolo Orso). NdT↩
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