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Presenza dell’avvenire
Hans Urs von Balthasar
Original title
Presenza dell’avvenire
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Specifications
Language:
Italian
Original language:
ItalianPublisher:
Saint John PublicationsYear:
2024Type:
Article
Source:
Monastica 4 (Civitella S. Paolo/Roma, 1962), 1–4
La festa di Natale è per molti soltanto il ricordo di un avvenimento trascorso che, di anno in anno, si allontana sempre nel passato.
Eppure il Natale è stato definito la pienezza dei tempi: infatti i secoli che lo precedettero hanno condotto l’umanità al Cristo in lenta ascensione, quasi per un’educazione divina della razza umana da Abramo a Giovanni Battista, anzi fin dai primi uomini dei tempi immemorabili al di là di tutte le civiltà più primitive o più raffinate. E per i cristiani del Nuovo Testamento fu così forte il sentimento che con l’avvento del Messia era stato raggiunto insieme il vertice e la fine dei tempi che vissero quegli anni della Chiesa nell’attesa del ritorno definitivo del Cristo.
E non avevano forse ragione?
Che cosa dobbiamo aspettare ancora sulla terra dopo la vita, l’azione e la parola del Cristo?
Tutto ciò che Dio voleva rivelare al mondo: la profondità della sua vita, l’intimo del suo cuore, il suo amore fino alla morte, la sua volontà di rendere noi – creature di spirito e di carne – eternamente felici nella sua casa: tutto ciò è stato rivelato. Quanto era da dire è stato detto, quanto era da fare è stato fatto.
È vero che vi furono nella Chiesa alcuni che aspettavano un nuovo sviluppo, un nuovo compimento anche dopo l’Incarnazione del Verbo, quasi che dopo l’età del Padre e del Figlio, vi dovesse essere quella dello Spirito Santo. Quasi che fosse possibile nel tempo un intimo e totale cambiamento della sostanza dell’uomo che dallo stato di peccato e di perdizione raggiungerebbe una superumanità spirituale. Siamo forse sulla strada di una simile trasformazione con i cosiddetti progressi di quantità e di misura?
Ma quale relazione hanno i nostri record di velocità, la nostra epoca di automazione e il miglioramento, la elevazione della natura umana?
E chi oserebbe paragonare le realizzazioni spirituali dell’umanità con quanto ha fatto il Cristo?
Crediamo forse che i cristiani attuali raggiungano il vertice del perfezionamento umano e non possano far altro che aspettare, perseverare e tener salda l’eredità tramandata?
Attaccati per sempre a qualche fatto preciso e passato, inchiodati con una catena di ferro a questi fatti storici ai quali attraverso i secoli continuiamo a credere, li celebriamo riverentemente ancora una volta, annunciandoli al mondo.
Ma non è questa una estenuante noia, l’assenza completa di ogni attività intellettiva?
«Il regno di Dio, dice Gesù, è simile all’uomo che getta il seme sul terreno: dorma o vegli, notte e giorno, il seme germoglia e cresce senza che egli sappia come. Il terreno produce da sé prima erba, poi spiga, poi grano pieno nella spiga. E quando il frutto è maturo, subito vi si mette la falce perché è venuta la mietitura» (Mc 4,26-29).
Il regno è vicino, il regno viene. La terra va incontro al cielo portando nel suo seno il seme divino.
I rigidi quadri dell’istituzione ecclesiastica non sono l’essenza della Chiesa, ma solo gli strumenti del divino agricoltore che feconda la terra vivente con semi viventi.
Crescere è quel che conta. Al punto che non si deve strappare l’erba cattiva per non disturbare, col pretesto di migliorarla, la silenziosa crescita del buon grano e compromettere così il raccolto.
Gesù vide ciò che aveva fondato non più grande di un granello di senape. Ma l’albero che egli vedeva in ispirito uscire da quel seme sarebbe divenuto più grande di tutte le piante del giardino. Quest’albero non cresce visibilmente sulla terra. Le profezie che riguardano la fine dei tempi lo provano abbastanza: ma è l’unico che cresce fino al cielo.
Paolo, nell’età matura, adotta questa visione della lenta crescita del Regno: egli vede la Chiesa come corpo del Cristo che cresce e matura per raggiungere l’età adulta, cioè la pienezza nello sviluppo della vita del Cristo; ma questa pienezza verrà raggiunta soltanto quando il tempo che scorre sarà raccolto nel bacino dell’eternità, o, per adoperare un’altra metafora usata dal Cristo, quando l’intera pasta sarà lievitata.
La pienezza dei tempi che incomincia nel giorno di Natale, non è fine dei tempi, ma apertura del seno del tempo che concepisce il seme divino. La Chiesa nell’Apocalisse è la donna gravida che sta tra il cielo e la terra e che, lamentandosi nelle doglie, faticosamente partorisce nel tempo il Bimbo eterno: non soltanto il Messia, ma, come è detto nell’Apocalisse, anche tutti i suoi discendenti che cercano di portare nel fragile vaso della loro esistenza umana il tesoro della vita eterna, l’amore che crede e spera.
È mai possibile che l’amore sia cosa compiuta, è mai possibile che sia una cosa passata che lasciamo dietro di noi?
L’amore non è forse sempre come dice una poesia medievale: «Avvenire di Dio»?
Ogni giorno dobbiamo aspettare la sua venuta: forse verrà oggi questo nostro pane più necessario del pane quotidiano, e ogni giorno dobbiamo domandarlo con lacrime amare, noi che l’abbiamo tante volte dimenticato, tradito e profanato, noi che avremmo dovuto riconoscerlo e siamo quindi doppiamente colpevoli.
Appunto per questo, l’eterno amore è venuto nella persona di Gesù Cristo, inconcepibile, nascosto e inosservato dalla storia del mondo, perché l’amore non fa chiasso, non fa reclame: al punto che i giudei sono quasi scusabili di non averlo riconosciuto, i discepoli di averlo tradito e rinnegato, i pagani di averlo crocifisso!
Soltanto quanto si fa con amore vigilante viene raccolto nei granai del Regno, poiché per mezzo dell’amore vigilante è già riunito sulla terra membro a membro, e sotto l’involucro del tempo cresce il corpo eterno.
Il Bambino del Presepio è come un atomo di eternità inabissato nella materia del mondo, quindi invisibile e tuttavia infinitamente attivo; la sua latente energia si trasmette al mondo in esplosioni inaudite, che Io rendono capace di fare cose che sembravano impossibili.
Così Natale è insieme centro e fine del mondo: la fine del tempo inabissata nel centro del tempo, speranza reale della sempre futura eternità in vista della quale l’umanità ora vive nel tempo.
L’incarnazione di Dio è l’avventura stessa, ciò che avviene, che viene verso di noi: ad-ventura; è l’«Evento». Perciò Natale non è una festa dalle porte chiuse con montagne di regali, frutto di un egoismo reciproco, ma festa dalle porte aperte per le quali la luce che ci attraversa raggiunge tutti i poveri di corpo e di spirito che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte.
È una festa in cui prende fine l’isolazionismo di Dio: e quindi ogni isolazionismo, nazionalismo e imperialismo – orientale o occidentale – è integralmente superato.
Ciò che oggi distingue e separa gli uomini, e li ha sempre distinti e separati, è proprio quello che li unisce: il messaggio d’amore che una volta per sempre è stato rivolto in modo unico a ognuno in particolare e insieme a tutti universalmente.