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Esercizi e teologia
Hans Urs von Balthasar
Original title
Exerzitien und Theologie
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Language:
Italian
Original language:
GermanPublisher:
Saint John PublicationsTranslator:
Community of Saint JohnYear:
2022Type:
Article
Esperienza dello Spirito
È noto che Ignazio di Loyola è uno di quegli spiriti nella Chiesa in cui una missione spiccatamente spirituale si coniuga con una forma mentis spiccatamente non-intellettuale. Egli somiglia in questo non soltanto agli Apostoli (eccetto Paolo), e forse soprattutto a Giovanni, ma altrettanto a Francesco d’Assisi e al Curato d’Ars. A differenza di quest’ultimo, certo, Ignazio non è tra quei santi di cui si ricordano le scarse doti intellettuali; ma comunque la sua educazione, prevalentemente indirizzata all’abilità fisica e alla «galanteria» delle maniere e del pensiero, ha lasciato un segno permanente sul suo intelletto nel senso di una certa incapacità speculativa e di astrazione. È ben vero che ha poi faticosamente portato a termine gli studi filosofici e teologici: ma quasi non c’è traccia di un influsso di questi studi sulle sue idee, a parte forse una certa sicurezza nella discussione delle questioni (ma anche di questo si può dubitare). E insomma, accanto a Francesco e Vianney, Ignazio è probabilmente il più spiccato «teo-didatta» della storia della Chiesa. Così come Francesco non trae le sue regole, le sue lettere e i suoi cantici da nessun’altra fonte che dalla sua umile anima, nella quale abita lo Spirito Santo, così Ignazio, per i suoi Esercizi, non attinge a nessuna fonte tranne che alla sua intima esperienza dello Spirito. Il paragone con altre opere che, si dice, avrebbero influito sulla sua – per esempio quella omonima del Cisneros – manifesta con evidenza palpabile quanto sia originaria, indeducibile e unitaria la visione spirituale di Ignazio, una visione che egli cerca a fatica, quasi goffamente, di condensare in proposizioni; è lui stesso a confermarlo quando dice che il germe degli Esercizi stava già nella sua personale esperienza degli spiriti e delle regole di discernimento che ne derivano. E sebbene si possa documentare a ogni passo che queste regole restano fedeli alla tradizione (cf. il confronto intrapreso da p. Vogt, e purtroppo incompiuto, tra le regole ignaziane e quelle dei Padri del Deserto, specialmente di Evagrio Pontico), in Ignazio tuttavia esse nascono in modo del tutto nuovo, verticalmente e senza parentele collaterali, a partire da un’esperienza vitale originaria del Vangelo. Così considerato, il libretto degli Esercizi appartiene alla schiera di quegli scritti mistici che non hanno precedenti esteriori nella tradizione, non hanno subito l’«influsso» di niente e di nessuno se non di Dio soltanto, e che dentro la tradizione ecclesiale producono nuovi inizi, a partire dai quali si sviluppano nuove tradizioni. Un esempio di questo fenomeno sono gli scritti ispirati di santa Ildegarda nel suo latino ispirato, ma anche le due Matildi [di Hackeborn e di Magdeburg], il Trattato di Caterina da Siena, e – benché non più con la stessa chiarezza – le opere di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce. Guardando a fenomeni di questo tipo si fa chiaro il vero concetto di tradizione. Esso non include soltanto, né in primo luogo, il tramandarsi esteriore (ed esteriormente verificabile) della dottrina apostolica senza soluzione di continuità, bensì anzitutto quel dispiegamento della rivelazione del Figlio per opera dello Spirito Santo, che secondo la promessa del Signore ha luogo in modo vivo nella Chiesa. Le due fonti della fede cattolica sono dunque, in ultima analisi, il Figlio e lo Spirito Santo; la rivelazione del Figlio è attestata nella Scrittura, quella dello Spirito Santo è interpretazione ecclesiale e viva della Scrittura: perché lo Spirito «non parlerà da sé stesso, ma … prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,13-14). Ma anche il Figlio non rivela sé stesso, bensì rivela il Padre; e così entrambe le fonti, il Figlio e lo Spirito, tornano alla fonte primigenia, il Padre. I punti più vivi della tradizione sono quelli in cui lo Spirito, nella Chiesa e per la Chiesa, ributta un uomo senza mediazione nell’origine stessa della Rivelazione, per darne, in quella contemporaneità che solo lo Spirito può produrre, un’interpretazione senza alcuna presa di distanza. E quest’uomo si trova ad assomigliare al pescatore di perle che, dopo un tuffo verticale nelle profondità, risale di nuovo alla superficie con i suoi tesori. Si trova nella Chiesa in una posizione esposta, non soltanto a causa del paradosso della sua missione spirituale priva di una tradizione esterna, ma ancor più per il pericolo che il suo «principio» venga confuso con il principio dell’eretico, per definizione privo di tradizione. Spesso i grandi eresiarchi sono santi non riusciti, presi dalla vertigine dell’arroganza a causa della loro posizione esposta e perciò pervertiti. Essi hanno scambiato il carisma dello Spirito, che sempre è un servizio destinato alla Chiesa, con una qualità personale.
Carisma e teologia
Se però questi carismi che lo Spirito dona alla Chiesa nel corso dei secoli sono veramente nuove illuminazioni e interpretazioni del Vangelo, essi, accanto al loro significato eminentemente pratico e riformatore, sono sempre al tempo stesso di natura essenzialmente teologica. Essi mostrano il punto preciso sul quale lo Spirito Santo vuole richiamare l’attenzione della Chiesa in una determinata epoca. Attraverso Agostino si rende la Chiesa attenta al mistero della grazia; attraverso Bernardo e Bonaventura a determinate forme dell’amore incarnato, attraverso Francesco all’umiltà e alla povertà, attraverso Ildegarda ai grandi nessi dell’economia della salvezza e allo scambio tra Cielo e terra nel Corpo mistico. Ciò che di volta in volta viene messo in luce, in modo nuovo e come per la prima volta, è un aspetto fondamentale della Rivelazione, una prospettiva che attraversa tutta la Rivelazione, e di conseguenza non può lasciare indifferente la teologia in quanto interpretazione della Rivelazione. C’è stato un tempo – all’incirca dagli Apostoli fino a Tommaso d’Aquino – nel quale i grandi teologi erano santi, nel quale, dunque, l’interpretazione carismatica e quella teologica si sovrapponevano in larga misura. Poi i due rami sono andati un po’ separandosi nel loro sviluppo: i santi si sono per così dire insediati accanto al grosso palazzo della teologia dotta, in una casa modesta che oggi si etichetta come théologie spirituelle o semplicemente «spiritualità», e hanno per così dire rinunciato a riempire con la loro forza carismatica l’edificio principale fino alle sue stanze più remote. Basta guardare all’opera di Francesco di Sales (debole soprattutto laddove espone una teologia di scuola, dà il suo meglio nella parte personale-spirituale), di Giovanni della Croce, di Teresa d’Avila, per constatare chiaramente questo scostamento. Il mondo dei santi diventa personale-esistenziale, ascetico-mistico-soggettivo, mentre quello dei teologi diventa soprattutto essenziale e marcatamente oggettivo. Benché Francesco di Sales e Giovanni della Croce siano dottori della Chiesa, quasi non li si troverà citati come auctoritates in un qualsiasi manuale di teologia. E non del tutto a torto: perché non trattano ed espongono ex professo le questioni fondamentali della dogmatica, come invece avevano fatto i Padri, o Bernardo e Anselmo, o i grandi scolastici. In modo ancor più marcato questo si può dire di altri santi dell’epoca moderna che non hanno avuto una missione e un’attitudine espressamente teoretica: hanno vissuto in una certa estraneità rispetto alla teologia accademica, e il loro influsso fecondo su di essa è ben poco. Ma questo è increscioso per entrambi i rami. La Chiesa fondata su «apostoli e profeti», sul ministero e sul carisma, sulla santità oggettiva e soggettiva, da nient’altro può essere resa più feconda quanto dalla collaborazione di teologia e santità, che insieme possono dare per ciascun tempo l’interpretazione ed esposizione attuale della rivelazione oggettiva di Dio in Cristo. Per riaprire la strada a quella sintesi che si è mostrata così feconda nell’età dei Padri e fino ai grandi scolastici, sarebbero necessarie due cose: da una parte occorrerebbe un’agiografia teologica, cioè lo sforzo di estrarre il contenuto teologico di quelle grandi missioni di santi che hanno una speciale rilevanza per la Chiesa – un contenuto teologico che può esserci anche laddove il santo stesso non è stato espressamente un teologo, per esempio in Luigi Gonzaga, Vincenzo de’ Paoli, Jean Eudes, nel Curato d’Ars, in Teresa di Lisieux; dall’altra parte, per il presente e l’avvenire, si tratta di impegnare i santi nell’interpretazione teologica della Scrittura e i teologi nello studio della vita e delle questioni dei santi e della santità. P. Philipon OP ha a ragione messo il dito su questo punto nel suo libro su Teresa di Lisieux (Sainte Thérèse de Lisieux, une voie toute nouvelle, Desclée, 1946, p. 9): «Il compito del teologo non si limita all’analisi e sintesi dei dogmi centrali della nostra fede; egli deve seguire nel dettaglio il lungo cammino della Rivelazione lungo la storia e offrirci una comprensione d’insieme del disegno di Dio, non solo per quanto concerne la direzione delle vicende esteriori, ma anche quanto al modo in cui nel segreto Egli dirige le anime. Questo compito abbraccia tutta la vita di grazia nella Chiesa e nel corpo mistico di Cristo. Un’agiografia così rinnovata sarebbe per tutta la Chiesa un arricchimento incomparabile anche nella dottrina. La nostra teologia di scuola, che resta astratta e schematica o cade nella casuistica, potrebbe guadagnare moltissimo da uno studio approfondito dei santi, non con un approccio meramente storico-descrittivo, bensì nel senso dell’interpretazione teologica».
Questo non vale forse per nessun altro in misura più forte che per Ignazio di Loyola: sebbene non fosse affatto, come si è detto, un teologo di scuola, con i suoi Esercizi egli detiene una spiccata ed eminente «missione dottrinale» nella Chiesa. Ci si ingannerebbe di molto circa la loro portata, se li si volesse relegare semplicemente al campo della «prassi» e dell’«ascesi», un ambito di cui il dogmatico di professione non dovrebbe occuparsi. Lo si è fatto abbastanza a lungo – per secoli, a dire il vero: e così non si è mai arrivati a un approfondito studio teologico degli Esercizi. I fiumi d’inchiostro che sono stati dedicati al tema rimangono quasi sempre nell’ambito pastorale o ascetico, e solo pochi si sono resi conto che qui sono da cogliere indicazioni e stimoli decisivi anche per la teologia speculativa. Suárez ha tentato nel suo tempo di costruire una specie di spiritualità teologica della Compagnia di Gesù; di recente Erich Przywara ha messo mano alla stessa sintesi nella sua opera monumentale Deus semper major – Theologie der Exerzitien (Herder, 1938-1940). Ma in generale, anche all’interno della Compagnia, rimane un certo dualismo tra una filosofia e teologia teorica d’impronta espressamente pre-ignaziana (non fanno eccezione neppure Molina, Lessius, Lugo, un Lallemant o un Rodricius, ecc.), da una parte, e un approccio pastorale ignaziano dall’altra. Un gran numero di gesuiti è del resto tomista, o neo-tomista (Maréchal).
Elezione
«Elezione», «indifferenza», «obbedienza»: la missione teologica di Ignazio gira attorno a questi centri. Punto focale degli Esercizi è l’elezione; l’incontro centrale con Dio è l’incontro con un Dio che sceglie, che elegge. Non con il Dio agostiniano della requies per il cor inquietum, non con il Dio tomista della visio beatifica per l’appetitus naturalis et supernaturalis visionis, bensì con il Dio che, nello scegliere con una libertà inconcepibile, discende sull’eletto, per esigerlo – al di là di tutte le «inquietudini» e di ogni «aspirazione» – in vista dei suoi scopi imprevedibili. Il contenuto della sua esigenza è manifestato nella sua proclamazione in Cristo «a tutto il mondo nel suo insieme»; ma la proclamazione avviene ogni volta in modo del tutto personale, «a ogni singolo in particolare» (ES 95), il quale ha da scegliere questo contenuto come il contenuto essenziale della sua vita. Il suo atteggiamento dunque deve consistere nel «non essere sordo alla chiamata, ma pronto e diligente» (ES 91) per essere capace di scegliere ciò che Dio ha scelto; ovvero per saper rinunciare alla libertà meramente creaturale, anzi alla libertà segnata dal peccato originale e falsamente «emancipata», come libertà che sta di fronte a quella di Dio («Sume et suscipe universam meam voluntatem», ES 234), così da partecipare a quest’ultima, per grazia, nello scegliere ciò che Dio ha scelto.1 Ne risulta un’immagine di Dio che ha il suo centro nella sovranità personale della decisione ogni volta unica; un’immagine che è apparsa e che rimane accessibile esclusivamente nell’unico e irripetibile apparire di Cristo, nel sempre unico incontro con lui e nella sua sempre unica elezione, nel suo «seguimi». E ne risulta un’immagine dell’uomo che ha il suo centro non nelle aspirazioni e negli aneliti del cuore che si spingono verso l’Assoluto per realizzarsi, bensì nell’atteggiamento di lode-riverenza-servizio (ES 23) e nella disponibilità (disposición) a una volontà di Dio mai deducibile, mai calcolabile anticipatamente a partire dalla propria natura, né in generale né in particolare. Donde un duplice contenuto per la vita cristiana. Per prima cosa, la scelta dello stato di vita nel suo insieme, cioè della forma di vita che Dio sceglie per il singolo (ES 135): il che, per la dicotomia di stato nel mondo e stato dei consigli, enfatizza nel modo più acuto il carattere di scelta che è proprio dell’esistenza ecclesiale. (Di qui l’esigenza di una dottrina teologica degli stati di vita nella Chiesa, che sino ad oggi non è ancora stata sviluppata, né nel campo dell’ecclesiologia né altrove). Dalla giustezza dell’elezione fondamentale dipendono gioie e dolori dell’intera esistenza cristiana; la quale poi appare come fallita nell’insieme se si è illusa di fare «di un’elezione obliqua o cattiva una vocazione divina» (ES 172), e, in fondo, ha costretto la volontà divina ad accondiscendere alla propria volontà (ES 169), o se, non scegliendo del tutto, rimane nel segno dell’indecisione. Ma – secondo aspetto – l’elezione fondamentale dello stato di vita è soltanto cornice e con ciò punto di partenza della sempre nuova scelta personale di Dio ad ogni momento della vita: l’analogia electionis deve diventare la forma della vita cristiana, che ne plasma ogni aspetto.
Dietro a questa immagine della vita sta, come si è mostrato, un’immagine precisa di Dio, la quale però subito si concretizza in Cristo e nel suo rapporto col Padre: Cristo come Signore del mondo e di ogni anima a motivo della sua perfetta obbedienza al Padre. Questa obbedienza è in fondo trinitaria: così come tutta la mistica di Ignazio, ricondotta alle sue fonti, è una mistica trinitaria. Così, per fondare la teologia degli Esercizi, si dovrebbe schizzare un’immagine della Trinità in cui la vita trinitaria venga presentata come la reciproca elezione e il reciproco lasciar scegliere nell’amore, quest’ultimo inteso come determinazione e indifferenza nella gratuita libertà personale di Dio (fatta salva la necessità delle processioni). Quest’immagine si otterrebbe a partire dall’immagine di Dio rivelata in Cristo, nostro modello, e presenterebbe un duplice vantaggio: la vita trinitaria si farebbe per noi concreta a partire della rivelazione di Dio nella carne, e d’altra parte la vita di Cristo diverrebbe interpretabile fin nei dettagli in senso trinitario.
Indifferenza
Le ulteriori parole-chiave – «indifferenza», «obbedienza» – sono già virtualmente contenute nella prima, cioè «elezione». L’indifferenza è il presupposto ontologico (e perciò anche, secondariamente, morale-ascetico) del compiersi della scelta, cioè, del compiere quell’atto che fonda l’essere cristiano. Giacché anche l’essere oggettivo-sacramentale non precede semplicemente la scelta (dato che per il battesimo di un bambino è richiesta almeno la decisione di fede della Chiesa) ed è donato in vista di essa. L’indifferenza è l’atto fondamentale della creatura. È a partire da qui che va sviluppata la teologia della potentia oboedientialis. L’indifferenza è il presupposto unico della scelta fatta una volta per tutte, cioè l’elezione dello stato di vita. In quanto informa la vita cristiana, questa scelta è una conclusione; ma è ancor più un inizio, cioè il presupposto di una vita feconda in cui è Dio a scegliere fin nei singoli atti. Se è così, l’indifferenza è quell’atteggiamento permanente che di continuo, nell’analogia electionis, ammette il primato della volontà di Dio sulla propria. Essa è addirittura il punto sorgivo e la forma della fede, dell’amore e della speranza, poiché essa è il fondamento della preferenza accordata alla verità divina sulla propria verità, all’amore divino sul proprio amore, alla promessa divina sulla propria sicurezza. Di conseguenza essa è anche il punto sorgivo delle virtù cardinali cristianamente intese, le quali ricevono il loro senso, la loro forma e giustificazione dalla fede, dall’amore e dalla speranza. L’indifferenza è poi, negativamente, la piena eliminazione di tutti i disturbi e gli ostacoli che, da parte della natura ferita dal peccato, potrebbero offuscare, in quanto «affetti disordinati», la scelta della pura volontà di Dio. Il perfetto prodursi dell’indifferenza teologicamente intesa viene sviluppato da Ignazio nei «tre gradi di umiliazione», che si possono anche chiamare gradi di disponibilità, di rinuncia al proprio disporre e di adeguamento alla disposizione divina (ES 164-168). Il primo riassume il mondo veterotestamentario del «comandamento» ed esige la disponibilità ad «obbedire in tutto alla legge di Dio nostro Signore» nel modo ancora indifferenziato di un aut-aut: per Dio o contro Dio. Il secondo sta, per così dire, sulla soglia tra l’antica e la Nuova Alleanza, poiché Dio è apparso personalmente, e dunque con una volontà personale e un piano, ed esige l’assoluta sequela ancor prima di sviluppare il suo piano. È il luogo proprio dell’indifferenza, poiché in questo grado è esigito «che io mi ritrovi nel punto» – e in verità è proprio solo un punto! – «in cui non inclino ad avere ricchezza piuttosto che povertà, a desiderare onore piuttosto che obbrobrio, una vita lunga più che una vita breve, se è uguale il servizio di Dio nostro Signore e la salvezza della mia anima». Vivere incarnando questo atteggiamento – l’attesa del piano del Dio personale – protegge in una forma più differenziata da un allontanamento dalla volontà di Dio, dunque dal «peccato veniale». Il terzo grado non fa che tratteggiare il quadro dello sviluppo del piano di salvezza neotestamentario, il quadro della differenza della scelta di Dio in Cristo, che in concreto significa: povertà, ignominia, follia della croce. Ma Ignazio rinuncia a fare subito di questa determinazione generale del quadro la determinazione individuale della volontà divina per il singolo, a meno che questo singolo abbia fatto veramente propri i gradi veterotestamentari della custodia dei comandamenti e il grado della soglia tra i due Testamenti, l’indifferenza. La scelta della croce, per il singolo, è subordinata a una doppia condizione: cioè da una parte «si presuppongono il primo e il secondo grado» – quindi è richiesto non solo di essere esercitati nell’osservanza dei comandamenti, ma anche, esplicitamente, di esercitarsi alla disponibilità perfetta; d’altra parte, si richiede che «siano uguali la lode e l’onore della divina maestà» (ES 167), che la scelta della croce non avvenga dunque a partire da una preferenza personale e da un entusiastico offrirsi, ma perché si è consapevoli di un’oggettiva elezione da parte di Dio. Allo stesso modo, teologicamente, il Nuovo Testamento va al di là dell’Antico soltanto in quanto compimento di ogni suo iota e ogni suo segno, e l’Antico conduce al Nuovo soltanto nella forma di una decisione che elegge da parte di Dio. Nella dottrina dell’indifferenza di Ignazio c’è dunque in nuce una sorta di dottrina esistenziale dei due Testamenti e dell’economia della salvezza; sviluppare questa dottrina metterebbe in luce l’idea – fondata già nell’atto dell’elezione – dell’agire storico di Dio e la conseguente storicità del cristianesimo e dell’esistenza cristiana.
Obbedienza
Perciò tutto si svolge nello spazio di una teologia dell’obbedienza: non primariamente l’obbedienza dell’uomo, ma di Cristo nei confronti del Padre; dunque, si tratta di una teologia dell’obbedienza trinitaria, secondo l’interpretazione che i Padri greci danno della parola evangelica «Il Padre è più grande di me». Questa obbedienza trinitaria è mostrata e donata oggettivamente al mondo nell’obbedienza di Cristo, e attraverso Cristo primariamente alla sposa di Cristo, la Chiesa, che possiede in Maria la sua origine e il suo grembo sempre fecondo. Ecco perché la prima contemplazione della vita di Cristo in Ignazio è esplicitamente mariana (ES 101 ss.); e la fine del libretto – le «regole per sentire con la Chiesa» – è implicitamente mariana in quanto l’obbedienza ecclesiale è posta tutta quanta sotto il segno della «sponsalità della Chiesa» (ES 353, 365). La forma di preghiera preferita è ugualmente mariana in quanto si inserisce soggettivamente, mediante Maria, nella dispensazione oggettiva della grazia da parte di Dio per mezzo di Cristo (ES 62-63). L’obbedienza del singolo dunque è un’obbedienza trinitaria, cristologica, mariano-ecclesiologica, sottomessa alle regole del «sentire» la volontà di Dio che sceglie, che si rivela non soltanto in modo globale e generale ma in modo personale sempre-ora (ES 95); sottomessa anche alle regole del rapporto personale tra l’anima cristiana e Dio – quelle «regole per il discernimento degli spiriti» (ES 313-336) che Ignazio fonda, riprendendo in modo nuovo un aspetto essenziale, ma a lungo tralasciato, della teologia dei Padri.
Ma questi non sono che pochi cenni, talmente brevi che a più d’uno sembreranno fuorvianti. Svilupparli dovrebbe essere il compito di una teologia degli Esercizi, o meglio ancora di una interpretazione teologica della missione di sant’Ignazio. Nulla potrebbe fecondare la pratica degli esercizi più di una tale interpretazione teologica; e, viceversa, da poche altre cose come da questa impresa ci si può aspettare una più ricca fecondazione della teologia speculativa. Le solenni approvazioni da parte della gerarchia, così come il fatto che la pratica degli esercizi sia raccomandata al clero, ai religiosi e a tutti i fedeli, mostrano che la Chiesa vede in essi più di un mero mezzo pratico di rinnovamento spirituale: vi vede un’autentica e genuina interpretazione del suo depositum fidei. Se si guarda alla sterminata bibliografia dedicata al tema si potrebbe pensare che è già stato detto tutto, che le verità degli Esercizi sono ormai esaurite, e che ci si potrebbe a buon diritto rivolgere ad altri alimenti spirituali. Ma il criterio quantitativo è ingannevole. Se è vero che ciascuno resta libero – anche Ignazio lo desidera e lo sottolinea – di scegliersi nella Chiesa una guida secondo il suo gusto per camminare verso Dio, è altrettanto vero e certo che gli Esercizi sono una miniera inesauribile di sostanza teologica, e che lo sfruttamento di questa miniera è appena agli inizi.
- Così si fa chiaro che l’«elezione» (con le relative «indifferenza» e «obbedienza») non è che il modo concreto in cui Ignazio intende l’amore. Se si cercasse di interpretare il concetto dell’amore negli Esercizi centralmente a partire dalla contemplazione ad amorem [ES 230 ss.], e non piuttosto a partire dai concetti fondamentali appena menzionati, non si toccherebbe mai il nucleo essenziale dello spirito ignaziano. E persino se non avessimo la contemplazione ad amorem (che è una specie di aggiunta ad libitum, fuori dal quadro delle quattro settimane), il percorso delle quattro settimane, nella sua unità di contemplazione ed elezione, non potrebbe comunque che stare sotto il titolo complessivo di «amore». Ma ciò presuppone che non si dia dei summenzionati concetti fondamentali un’interpretazione naturale, puramente filosofica, come spesso avviene, bensì li si interpreti nell’unico senso possibile, secondo ciò che corrisponde alla materia di contemplazione nel suo insieme: come concetti espressamente soprannaturali e con le categorie della storia della salvezza. Nel «suscipe universam meam libertatem» (ES 234) e nello scambio di «avere e possedere» e di «essere» (ES 231, 234) tra Dio e uomo sta la chiave per il mistero d’amore dell’analogia electionis, che in ultima analisi è risolvibile solo trinitariamente: l’amore come preferenza della volontà dell’altro, e dunque come mutuo lasciar-determinare – come il Figlio non fa nulla se non ciò che vede fare dal Padre, e però il Padre esaudisce sempre il Figlio. Solo all’interno di questo rapporto d’amore si capisce anche tutta l’ampiezza dei possibili modi di elezione, che nel loro insieme restano varianti dell’unica analogia electionis: che sia piuttosto Dio solo a compiere la scelta fin nei dettagli concreti, e l’amore dell’uomo si esprima come «passivo» scegliere questa scelta di Dio, o che invece Dio coinvolga la decisione dell’uomo nel Suo atto di elezione e le assegni un ruolo più «attivo», sempre nel quadro dell’amore e dell’abbandono di sé, per produrre in questo modo l’unità dell’analogia, nessuna di queste varianti è fondamentalmente più elevata delle altre, e nessuna è nettamente separabile dalle altre (come dovrebbe esserlo se la si considerasse al di fuori del piano soprannaturale e trinitario: in tal caso, o Dio sceglierebbe da sé o lascerebbe che sia l’uomo a scegliere, e dunque si dovrebbero suddividere gli uomini in due categorie, quelli per i quali è Dio a scegliere e quelli che sono liberi di scegliere per loro conto). Anche la tensione tra ciò che è «dovere» e ciò che è «permesso» o «concesso» nell’elezione rimane relativa: lo si vede nella posizione trinitaria del Figlio, per il quale la volontà del Padre è al tempo stesso consiglio-desiderio (placitum) e comando (mandatum). In ogni caso è qui necessario il concetto agostiniano di libertà, che vede la libertà dell’uomo tanto più grande quanto più partecipa per grazia alla libertà di Dio. Ogni altro approccio non potrebbe che portare a deformanti antropomorfismi nell’interpretazione dell’elezione. In conclusione, i diversi modi di elezione proposti da Ignazio (ES 175-188) non vanno interpretati nel senso di una diversità nel contenuto dell’elezione, nemmeno se il «primo tempo» ha più affinità con una prevalente passività dell’uomo nella scelta, e il «terzo tempo» con una prevalente attività da parte dell’uomo, all’interno dell’unica e indivisibile analogia electionis. Già il fatto che ci sia anche un «secondo tempo» basta a rendere impossibile la bipartizione a cui si è accennato.↩
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