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Dove ha il suo nido la fedeltà?
Hans Urs von Balthasar
Original title
Wo ist die Treue daheim?
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Language:
Italian
Original language:
GermanPublisher:
Saint John PublicationsYear:
2024Type:
Article
Source:
Strumento internazionale per un lavoro teologico Communio 26 (Milano, 1976), 5–20 [tr. riveduta per questa edizione elettronica]
1. Localizzazione nell’uomo
Nella storia dell’umanità resta stranamente occulto il luogo in cui sta di casa la libertà. Nell’era dei popoli arcaici essa è proprio al centro delle qualità che ci si attende dall’uomo compiuto, sempre insidiata, certo, dal pericolo d’esser tradita, ma in una posizione inattaccata. Allorché spariscono le genti arcaiche e hanno inizio le grandi civiltà, si fanno avanti altre virtù, e la fedeltà non ha più posto fra le quattro cardinali. Non che non la si apprezzi più affatto; ma nella sfera sociale essa si tramuta in pensieri senza passione (pacta sunt servanda) e nella privata in una singolarità ammirata in taluni individui. Oggi, essa si trova in una crisi più virulenta che mai.
La fedeltà umana poggia su di un rapporto interpersonale che ha un fondamento naturale ed etico a un tempo, laddove non è oggetto di riflessione alcuna la relazione fra il naturale (è stato sempre così, ed è il meglio secondo l’esperienza) e l’etico-responsabilistico («ora devi serbar fedeltà contro il tuo interesse»). Solo là dove io posso «fidarmi» è possibile un’esistenza dialogica fra gli uomini: colloquio, patto, accordo, negozio, qualsiasi iniziativa comune a due o più. Occorre che a ciascuno dei partecipanti sia dato un certo vantaggio perché sia praticabile la via che passa fra le persone.
Ma che avviene allorché il basilare rapporto naturale-etico fra io e tu viene sostituito da una regola (la si chiama «ideologia»), una regola fissa che non concede vantaggi ma vuol essere essa il punto di partenza, una regola la cui incondizionata pretesa d’esser fedele al giusto giustifica ogni mezzo, ivi compresi senz’altro menzogna e tradimento? L’uso di mezzi simili, c’è da attenderselo là dove l’ordito della vita sociale si separa dalla sfera del vantaggio, del dono previo interpersonale. Ecco quindi un Solženicyn levare il suo grido di Cassandra: «Non vi fidate: non c’è nemmeno un po’ di fedeltà in quelli!», i loro piani si svolgono su di un piano in cui voi non siete più altro che pezzi di scacchi mossi da loro. L’altra metà del mondo? È scissa in due atteggiamenti: da una parte tenta di smuovere il blocco ideologico per portarlo a un atteggiamento d’umana fiducia (détente), e resta puntualmente deluso da amare esperienze. Dall’altra, come il mondo intero del resto, essa è determinata dalle dure leggi della tecnicizzazione, dell’alta finanza e delle esigenze difensive imposte dall’altro blocco: tutti fenomeni che, ad onta del perdurante spazio (o spiraglio) di libertà, minacciano di creare un’analoga rete sovrapersonale di regole supreme di comportamento.
Che meraviglia, se un simile mondo sia considerato per principio con sempre montante sfiducia dalle generazioni in ascesa? Da chi dovrebbero apprendere la fedeltà quale atteggiamento interiore che per primo umanizza ogni rapporto fra uomini? E come il terreno su cui camminano potrebbe esser solido abbastanza da reggere una simile fiducia? E qualora, una volta rassicurati a sufficienza, si osi dare uno o due passi, come si potrebbe mai giungere all’idea d’impegnare in anticipo la propria esistenza intera, futuro compreso? Nella presente situazione mondiale, che non riposa più su di alcuna moralità naturale, nemmeno la più fragile, il non fare qualcosa del genere è un ovvio comandamento della ragionevolezza, che viene obbedito istintivamente, in modo irriflessivo. Qui risiede, senza dubbio, la ragione ultima delle «parziali identificazioni» che si hanno nella Chiesa, soprattutto del diminuire delle ordinazioni sacerdotali e del rifiuto di voti religiosi definitivi.
L’ideologia è una «verità» che si può apprendere e far propria senza impegnare personalmente sé stessi (per quanto, poi, avanzi le sue pregiudizievoli pretese sull’esistenza). La crisi odierna della fedeltà s’identifica con la crisi della forma umana della verità. Finché la verità avrà una forma umana (l’uomo sarà «pastore dell’essere»), per essere in questo mondo esigerà veracità dall’uomo. Non può esistere come verità puramente sottoumana, extraumana o sovrumana.
Molteplici sono le testimonianze in cui l’etimologia ci dà a conoscere, muovendo sia dalla radice wahr (vero) sia dalla radice treu (fedele), l’omogeneità strettissima esistente fra verità e veracità o fedeltà anche in tedesco, oltre che nell’ebraico e quindi nel linguaggio biblico, in cui, com’è noto, i due significati coincidono semplicemente in emeth (e nei suoi derivati, quale amen). Da wahr deriva bewährt [= che ha fatto buona prova di sé N. del T.], vi ha a che fare l’antico nordico varar, formula di promessa solenne di fedeltà, la dea Var protegge il giuramento; l’anglosassone wāer significa patto di servizio scambievole, alleanza, fedeltà, benevolenza, favore; l’antico alto tedesco wara, il medio alto tedesco wāre equivalgono anch’essi a fedeltà nell’alleanza. Se si muove da Treue (fedeltà), ci s’imbatte subito nell’inglese true (vero), truth (veracità, lealtà; verità, sincerità, fedeltà); truce è la tregua d’armi basata su «fedeltà e fiducia» scambievoli (cfr. treuga Dei, trève), trust è credito, cioè un tranquillo affidarsi alla veracità altrui. Fedele (treu) è uno di cui ci si può fidare (trauen), se due si fidano l’uno dell’altro, possono diventare «fidati» l’uno per l’altro. L’esclamazione traun!, tanto cara a Lutero, significa «in verità». E si potrebbe continuare.
Questa connessione fra verità e fedeltà è caratteristica dell’universo umano. Non la si può dedurre da una natura infraumana, anche se pensata come omnicomprensiva. Nel mondo animale si hanno esempi di tutto quel che si vuole: tanto di unione quanto di separazione. È evidente nell’istinto gregario, in quello di riproduzione e in quello di covatura. Né si può dedurre la fedeltà umana, nemmeno nella sfera strettamente sessuale, dallo specifico comportamento dei sessi in natura o dalla sua sublimazione, al contrario di quanto fa (per citare un solo esempio fra tanti) Nietzsche. È pur vero che in una pagina di Aurora egli sembra ritenere che la sublimazione delle passioni abbia nobilitato l’uomo, facendolo «superumano»: «L’istituzione matrimoniale puntella ostinatamente la fede che l’amore, benché passione, sia come tale capace di durata, che anzi l’amore duraturo per tutta la vita possa essere eretto a regola. Mediante questa ostinazione di una nobile fede, sebbene molto spesso e quasi normalmente venga confutata e quindi sia una pia fraus, l’istituzione del matrimonio ha dato una superiore distinzione all’amore. Tutte le istituzioni che accordano ad una passione fede nella sua durata e responsabilità della durata, contro l’essenza stessa della passione, hanno dato ad essa un nuovo rango e ormai colui che viene colto da una tale passione non si crede più, come una volta, abbassato o messo in pericolo ad opera di essa, bensì innalzato dinanzi a sé e ai suoi simili. Si pensi alle istituzioni e ai costumi che hanno trasformato l’infiammato abbandono del momento in eterna fedeltà, la brama della vendetta in eterna vendetta, la disperazione in eterna mestizia, la parola improvvisa e irripetibile in eterna obbligazione. Attraverso una tale trasformazione è entrata ogni volta nel mondo molta ipocrisia e menzogna; ogni volta, e a questo prezzo, anche un nuovo concetto sovrumano che innalza l’uomo»1.
Ma non molto più tardi, ne La gaia scienza, viene messo in ancor più vigoroso risalto il carattere ingannevole (già sottolineato nel testo precedente) che, almeno per il maschio, avrebbe tale sublimazione: «La donna vuole essere presa, acquisita come un possesso, vuole risolversi nel concetto di “possesso”, di “posseduta”; di conseguenza vuole colui che prende, che non si dà e non si dona lui stesso, ma che viceversa deve farsi in “sé” precisamente più ricco – attraverso un incremento di forza, di felicità, di fede, quale gli dà la donna donando se stessa. La donna si spende, l’uomo s’accresce – io penso che non si potrà superare questo contrasto di natura mediante nessun contratto sociale, neppure con la migliore volontà possibile di giustizia benché possa essere auspicabile che quanto v’è di crudo, di terribile, d’enigmatico, di immorale in questo antagonismo non ci venga posto costantemente dinanzi agli occhi. L’amore infatti, pensato come cosa totale, grande, piena, è natura, e in quanto natura qualcosa “di immorale” per tutta l’eternità. Coerentemente a ciò la fedeltà è implicita nell’amore della donna, ne consegue per definizione: nell’uomo, essa può facilmente originarsi come corollario del suo amore ed essere qualcosa di simile alla riconoscenza o alla idiosincrasia del gusto o a una cosiddetta affinità elettiva, ma non appartiene all’essenza del suo amore – e invero gli è così poco intrinseca, che quasi a buon diritto si potrebbe parlare nell’uomo di una naturale opposizione tra amore e fedeltà: il quale amore è appunto un voler possedere e non un rinunciare e uno spendersi; ogni volta però il voler possedere muore con il possesso… Effettivamente, è la più sottile e più diffidente sete di possesso dell’uomo, che di rado e tardivamente confessa a sé questo “possesso”, ciò che fa durare il suo amore; a questo modo è perfino possibile che dopo l’abbandonarsi di lei esso cresca ancora – : difficilmente egli ammette che una donna, per lui, non abbia più niente da “dare”»2. Qui la fedeltà è una caratteristica della donna, ma in quanto maschera d’un istinto fisiologico. L’infedeltà è caratteristica dell’uomo che si sovrappone con faticosa maldestrezza la maschera della fedeltà, ma solo per occultare la sua infedeltà sessuale o la sua vanità.
Se nella pagina nietzschiana e nella psicoanalisi la fedeltà si fa discutibile a partire dal subumano (o dagli strati infrapersonali profondi dell’uomo), è altresì vero che nella prima viene considerata come qualcosa di costruito e di relativizzato rispetto al sovrumano (e disumano), se non addirittura distrutta. Ormai essa non può trovare la sua sede che nell’umano.
2. Fragilità dell’umano
Ma quanto fragile appare la natura dell’uomo, se su di essa vanno gettate le fondamenta d’una fedeltà che a sua volta dev’esser capace d’offrire un sostegno alla fragilità delle umane decisioni e obbligazioni! E in questo la natura dell’uomo va presa nella sua incondizionata totalità, ivi compresi, quindi, i suoi istinti di sesso e di potenza, la sua vivace propensione al mutamento, all’associazione, come pure all’eremitaggio. Che l’impresa sarà difficile, è evidente di primo acchito; se l’atto singolo di fedeltà è un rischio in ogni caso isolato, il fondare una fedeltà onnicomprensiva sulla «natura» dell’uomo non può non risolversi nello sfidare a un rischio quella «natura» medesima. Eppure, dev’esser possibile dimostrare che questo «salto» non viene spiccato alla cieca, nel vuoto, che gli è propria una razionalità, la sola che possa render l’uomo comprensibile in quanto uomo e la sua esistenza degna d’esser vissuta. In una simile dimostrazione deve entrare in gioco qualcosa di più di casi eroici isolati di fedeltà personale. Casi del genere sono ammirati volentieri da chiunque; ma c’è da chiedersi se un’ammirazione siffatta abbia conseguenze più di quante ne può avere quella per un cane fedele che va a morire sulla tomba del padrone. Essa non obbliga ad imitare un comportamento così estremistico. Per rendere solida la fedeltà, si può ben cominciare col battere tre vie.
1. La fedeltà è il presupposto d’una sopportabile coesistenza fra uomini, nell’ambito di famiglie, stirpi, città, popoli. È ciò di cui ci si deve poter fidare, allorché si valica il proprio ambito per passare negli altri, come è richiesto ad ogni istante. In questo essa somiglia al linguaggio, che è il mezzo per comunicare, e pure ne è diversa, in quanto sono costretto ad osservare le convenzioni linguistiche, se voglio esser compreso, mentre il mio tributo di fedeltà alla società resta in larga parte volontario. Certo, debbo salvare ampiamente l’apparenza di fedeltà, se voglio affermarmi socialmente; ma tutta l’esistenza umana è mutevole al massimo, le situazioni sia dell’individuo sia dei gruppi cambiano senza posa, e ciò che appare alla fine si rivela ben presto relativo e necessitante mutamento, ed anche le norme di comportamento pubblico si palesano quanto altre mai volubili. I trattati contengono numerose clausole per casi prevedibili e imprevedibili. È pressoché impossibile assodare se le circostanze mutino senza mia colpa e mi esonerino da certi obblighi, o se la mia intima infedeltà, dovuta ad esempio a passioni travolgenti, gonfiate sino a diventare una fatalità, sia la causa della mutata situazione. Vanno messe in conto l’una e l’altra ipotesi. Perché, nonostante questa labilità, sia possibile qualcosa di simile a una vita sociale, subentra, come norma regolatrice universale, la cosiddetta «regola d’oro» che, secondo il «discorso della montagna», così suona: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12); una regola che però era già nota da Erodoto e dal sofista Antifone in tutta l’antichità greca e romana e di qui è penetrata nel giudaismo; Seneca l’annovera fra quelle massime la cui verità è immediatamente evidente, senza bisogno d’esser provata e pertanto va collocata in una fase dell’iniziazione etica che deve precedere l’addottrinamento filosofico3. In sostanza non dice nulla d’altro l’imperativo categorico di Kant. Del resto, anche un’etica edonistica, che non prenderà troppo sul tragico i singoli atti d’infedeltà, se è intesa a una felicità più grande e durevole, dovrà attenersi essa medesima alla regola aurea. Solo questa assicura al singolo uno stato di sicurezza e continuità relative nell’esistere. La sua prova fondamentale, perciò, essa la ripete dal vantaggio dei singoli: ha radici egoistiche altrettanto robuste delle altruistiche, anzi il suo momento altruistico è determinato, in ultima analisi, dai desideri e dalle rinunce dei singoli per riguardo a sé stessi. Se in un dato caso singolo si esige da un individuo che rinunci alle sue voglie private e resti fedele alla parola data, ciò avviene bensì in vista del bonum commune, ma la richiesta adempiuta torna a vantaggio immediato dell’individuo in questione. Ora, nondimeno, dovremo chiederci seriamente se l’egoismo e l’interesse possano costituire il fondamento autentico della fedeltà interpersonale.
2. Ciò che è difficile giustificare, quanto ai rapporti interpersonali, sul piano della realtà umana nuda e cruda, potrebbe forse ricevere una prova più credibile dalla sfera della persona singola. L’uomo moralmente integro non deve esser fedele anzitutto a sé stesso? ai suoi principi, ai suoi propositi, all’ideale che si è prefissato, che egli conosce e a cui tende? Qui potrebbe emergere un criterio capace di consolidare, a certe condizioni, i rapporti interpersonali, ma altresì di relativizzarli: se, poniamo, la mia sincerità con me stesso considera non più tollerabile un rapporto d’amore, d’amicizia, ecco che l’etica esige la famosa «interruzione della comunicazione». La responsabilità verso me stesso prevale, in questo caso, su quella verso l’altro. Basta, però, enunciare una simile norma perché ne risulti evidente la problematicità. I miei principi, propositi e ideali personali sono soggetti alla variabilità delle fasi e situazioni della vita non meno dei miei rapporti interpersonali, e in verità non possono assolutamente non esserlo, se voglio restare un uomo vivo, e non un farisaico quanto maniaco sostenitore di principi (una delle peggiori fra le specie dei pignoli suscettibili). Se mi fosse dato di delineare il mio ideale in assoluto, e quindi anche per il mio futuro, dovrei esser padrone di qualsiasi situazione possibile in cui m’imbatta, l’appello dell’ora sarebbe qualcosa a cui dare non già ascolto, bensì la risposta bell’e pronta in anticipo. In tal caso, anzi, io potrei considerarmi superiore perfino al mio proprio processo di maturazione, alla formazione del mio gusto, alla valutazione che do dei rapporti umani e di ciascuno dei miei simili. Tutta la mia visione del mondo finirebbe coll’essere atemporale e fissata da me stesso soltanto. Quale operante sul piano etico, infatti, non potrei esser minimamente soggetto a una qualche costrizione (l’ereditarietà, il condizionamento dell’ambiente ecc.), ma dovrei poter progettare il mio avvenire così liberamente da poter continuare ad esser libero anche in futuro, benché sia certo che questo sarà diverso dal presente. Ma che mi resta, allora, della sostanza del mio progetto, tranne l’ideale del mio esser libero in tutte le situazioni? Tutto il mio ideale si assommerebbe in nient’altro che nella possibilità e liceità di decidere in ogni istante futuro in modo conforme alla mia responsabilità verso la situazione del momento. Qualcosa di puramente formale, quindi, e materialmente affatto inconciliabile con l’assoluta infedeltà a tutti i doveri che l’ora impone. La fedeltà, dunque, non può fondarsi sulla fedeltà a sé stessi.
3. La mera fedeltà di tutti gli individui a sé stessi condurrebbe inevitabilmente al caos sociale; è necessario, perciò, che si dia qualcosa di simile a una comune rinuncia delle possibilità personali, forse perfino ai diritti di cui si gode all’interno della società; sì che possa originarsi un collettivo soggetto sociale che si elevi al di sopra di quelli singoli come determinante. La rinuncia può esser motivata disparatamente (si pensi a Hobbes, a Montesquieu, a Rousseau, a Fichte, a Hegel), ma sarà quasi sempre rigorosa, radicale; il soggetto complessivo che si costituisce (come il «Leviatano», come la concretezza del «trascendentale» o del «soggetto assoluto») relativizzerà tutti i vincoli subordinati, personali, superandoli all’interno di più generali. Nella Fenomenologia dello spirito hegeliana e, ancor più pronunciatamente, nel programma marxista, questo processo d’universalizzazione acquista una tale forza dirompente che rispetto ad ogni stadio raggiunto si palesa sempre un’infedeltà nuova (qualora lo spirito non voglia irrigidirsi in quello e mettersi dalla parte del torto), poiché la fedeltà ultima significa, a priori, l’integrazione nel soggetto totale che sta alla fine dei tempi. Qualora questo sia rappresentato, con un anticipo storico, dal «partito», sarà conveniente e «permesso» ogni mezzo inteso ad accelerarne la totale realizzazione: arcipelago Gulag, lavaggio del cervello ecc. A questo proposito ci si dovrà rifare sempre al brechtiano La linea di condotta, di cui però non possediamo il radicale testo primitivo.
Grazie a nessuna delle tre possibilità l’uomo può giustificare da se stesso la fedeltà come una sua proprietà fondamentale (invece che come una modalità comportamentale puramente occasionale). Ma donde trassero le culture «integre» d’un tempo l’incrollabile certezza che senza il principio di fedeltà l’esistenza umana non sarebbe capace di svilupparsi nelle sue forme più nobili? Ad onta di qualsiasi diffidenza, verso vincolamenti definitivi, anche fra gli uomini d’oggi, i giovani non esclusi, esiste l’esigenza d’una via attraverso il confuso disordine, una via fidata su cui poter camminare tranquillamente? Non si danno forse talvolta, esempi lampanti di fedeltà mantenuta per tutta la vita, una fedeltà che, a guardarla di lontano, può apparire come una filistea capacità d’irrigidimento («a quelli non viene in mente più nulla!») ma che, ben considerata da vicino, si disvela per tutt’altro, cioè per una grande luce interiore?
3. Trasparenza dell’eternità
L’uomo è un paradosso: non ha un tranquillo centro in sé stesso, ma possiede due baricentri, uno che tenderebbe a collocarlo al di sotto di lui, nella sfera biologico-animale, e un altro che lo domicilia, al di sopra, in una sfera di valori e beni assoluti, che in certo qual modo non gli competono per natura e che sovraffaticano questa natura. Senza un siffatto rivestimento del biologico, per cui questo viene reso utilizzabile in una sfera che lo trascende, senza questo sforzo corporeo-spirituale dell’uomo intero («ascesi» significa «addestramento») non si danno né etica né religione. E ogni etica, se vuol esser degna dell’uomo, dovrà avere un fondo religioso, altrimenti i valori assoluti a cui l’uomo volubile aspira rimangono astratti e incapaci di sorreggere il peso dell’esistenza. Catturare in concetti la trasparenza della sfera religiosa, il suo affiorare attraverso quella mutevole terrestre, è più difficile che averne un’esperienza vissuta. Esiste, in verità, un simbolismo delle forme esistenziali, che non solo fu decifrato facilmente dalle citate culture d’un tempo, ma può esser compreso anche oggi da qualsiasi uomo incorrotto.
Prendiamo, a mo’ di esplicazione, la validità del quarto comandamento: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Es 20,12). Il nucleo biologico dell’uomo può muovere più d’una plausibile obiezione: perché mai dovrei esser riconoscente per tutta la vita a due individui, che forse misero insieme un atto sessuale del tutto fortuito, persone che non so affatto se mi abbiano voluto davvero? e chi mi prova che quest’uomo è veramente mio padre? e via dicendo. Se proprio si deve parlare di fedeltà e riconoscenza, lo si farà tutt’al più nei confronti d’una natura impersonale, la quale provvede alla conservazione d’una specie che ha in me un esemplare del tutto insignificante. Le culture d’un tempo hanno voluto sacralizzare un fatto animalesco nel comandamento d’amare i genitori per tutta la vita, per conferire stabilità all’assetto sociale; noi possiamo ottenerla in altro modo. Eppure, se con occhi umani guardo da padre o da madre il mio bimbo che mi sorride, so che mi si rivela un mistero infinitamente più profondo: ho avuto (e continuo ad aver) parte nella creazione d’un essere che eccede altamente la sfera biologica, e l’eccedenza è più di quanto non saprei esprimere, è un dono incomprensibile, qualcosa di cui vanno rese grazie anche mio tramite. Nella sfera umana concepire e partorire sono un mistero che ascende e si perde nell’eterno, poiché ne risulta un essere spirituale e spirituale è perciò il rapporto che si stabilisce fra lui e i genitori. Un rapporto incentrato sul fatto che il figlio deve se stesso ai genitori, e che s’inalvea non solo in una spirituale responsabilità dei genitori verso il figlio, ma altresì nella spirituale gratitudine che accomuna gli uni e l’altro verso una non disvelata Origine, che è più che natura. Questo vincolo che stringe insieme figlio e genitori non si spezza allorché, giunto il primo all’età adulta, si conchiude il processo del suo mantenimento e allevamento: poiché affonda le sue radici in una realtà metatemporale, quel vincolo abbraccia la totalità dell’esistenza. Nessuno degli argomenti a favore d’una «società senza padri» è capace di liquidare questa semplice esperienza umana. I rapporti umani fondamentali non vanno messi sul conto del biologico, anche se hanno un aspetto accessibile a previsioni e meccanizzazioni. L’uomo è riferito a un sovrappiù, che è dono e che costituisce il valore distintivamente umano, non è qualcosa d’esteriore, che dall’uomo autonomo rimandi a una realtà posta al di fuori di lui, trascendente; è invece un rinvio insito nell’intimo dell’essere umano medesimo.
Pertanto, il quarto comandamento e la fedeltà a vita che ne è il postulato fondamentale sono espressione della medesima religiosità perenne iscritta nell’uomo. Ed è di qui che si comprende come possano partecipare dello stesso simbolismo anche altri rapporti intraumani, soprattutto quelli fra sposi e fra amici. È possibile che, al di sopra delle tattiche d’abbagliamento e accecamento dell’erotismo, un uomo scorga e decida d’amare in una donna, e una donna in un uomo, l’irripetibile nucleo della persona, che è un’irriproducibile «immagine e somiglianza» della divinità. Un amore siffatto – non certo frequente – dovrà sempre far prova di sé, e la farà, come fedeltà, appunto, solo quando si saranno consumati i primi superficiali entusiasmi. Ma si potrà anche riuscire a dare alla fedeltà nuziale, all’amore ingenuo, una vita la cui durata trascenda di gran lunga il tempo previsto biologicamente. Ancora una volta, è l’uomo che, amato dall’uomo, travalica la sua forma terrestre, peritura, additando in sé la presenza d’un momento eterno. Per chi lo abbia contemplato davvero, nemmeno la morte può contraddire alla sua visione, neppure se egli non ha pronta una risposta plausibile agli interrogativi che la morte suscita.
Lo stesso si dica dell’amicizia, qualora si riconosca e apprezzi disinteressatamente il valore dell’amico. Che in simili rapporti sia sempre compreso anche l’aspetto dell’arricchimento personale attraverso il completamento reciproco, non costituisce necessariamente un’obiezione a quanto si è detto. Chi possiede un qualche conoscimento di sé, è perfettamente in grado di distinguere fra quanto egli ricerca nell’amico per suo proprio tornaconto, e quanto gli concede e dona per amore. «Per il solo fatto che tu sei, ci si accosti a te con gratitudine».
Facciamo punto con questi esempi di fedeltà interpersonale e non li estendiamo alla fedeltà alla patria o a un partito o a un ideale d’umanità. In verità, pur essendo piuttosto impersonali, questi legami si collocheranno anch’essi, in definitiva, nella sfera personale. Importante a questo proposito era solo che si facesse evidente come, in forza di una trasparenza o immanenza insita nell’essere umano medesimo, si rivelasse una sfera etico-religiosa. In molti uomini dotati di fedeltà autentica essa non si articolerà esplicitamente nella fede in una divinità personale. Ma si accompagnerà sempre a un timore reverenziale di fronte al mistero anonimo che compare al fondo della persona del loro simile. Un cinico non può esser fedele. Forse non è nemmeno necessario che, risplendendomi nel simile che amo, il mistero dell’eternità si espliciti sempre in fede nell’immortalità. Ma finché quest’uomo vive ed io posso esistere per lui, in lui trovo qualcosa di metatemporalmente valido, e ciò può bastarmi per essergli dedito con fedeltà dimentica dell’io.
Eppure, la fragilità dell’umano mette in pericolo ciò di cui si è detto or ora non meno di quanto si è esposto nel paragrafo precedente. Si dovrà pertanto dar ragione a Solov’ëv, che nel suo saggio sul «senso dell’amore sessuale» mette in risalto la straordinaria rarità dell’amore perfetto e della perfetta fedeltà (intesi come unità di eros e agape). La fedeltà non è, certo, una «vuota illusione», ma, in questa «regione di straniamento» (regio dissimilitudinis, come dicono, rifacendosi a Platone e Plotino, Agostino e Bernardo), resta una pianta esotica. Una pianta che finisce col metter radici solo se e quando nell’uomo il misterioso-eterno si schiarisce nella fedeltà personale di Dio all’umanità.
4. La fedeltà di Dio e dell’uomo
Con le sue proprie forze ben difficilmente l’uomo medio potrà serbarsi fedele ai suoi simili e all’idea che gli aleggia in mente; ancora più difficilmente avrà il coraggio di far suo in anticipo un ideale siffatto. Nelle culture d’un tempo tutto era reso più facile da un principio d’inerzia intramondana, che oggi non sostiene più la nostra civiltà. La fragilità dei rapporti, ma anche la loro manipolabilità tecnica, impongono la diffidenza. Si offusca il simbolismo naturale dei rapporti umani fondamentali.
Per seminare la fedeltà sulla terra, Dio dovette rivelare la sua eterna. Per questo fine non basta, naturalmente, che l’uomo conosca la fedeltà divina come proprietà intrinseca ed essenziale della divinità, la conosca come una «fedeltà a se stesso», che l’uomo dovrebbe caso mai limitare essendo «fedele a se stesso». Ciò finirebbe col ricondurci alla seconda possibilità discussa sopra, che si è palesata insufficiente. Dovrebbero essersi già dati dei punti di contatto sostanziali fra il modo divino e quello umano d’esser costante; si pensi, ad esempio, alla «vita conforme alla natura» degli stoici. Ma in definitiva non sono sufficienti nemmeno questi punti in comune, giacché, se vissuti dall’uomo, non lo fanno vivere appieno né divinamente né umanamente, mancando così di cogliere proprio quella sfera in cui è vissuta la fedeltà specificamente umana.
Occorre, piuttosto, quella fedeltà di Dio rivolta personalmente all’uomo, quella fedeltà che esige una risposa autenticamente umana e che è tipologicamente realizzata nell’Antico Testamento. Il nome che si dà a Jahwe, «Io-sono-colui-che-sono», per nulla avrebbe giovato a Israele se insieme ad esso non si fosse pronunciata la fedeltà promessa al popolo e storicamente manifestantesi in una ininterrotta compagnia. E, viceversa, un simile accompagnamento denso di promesse non avrebbe giovato a nulla se non fosse provenuto da un Dio che possiede in sé, per la sua propria essenza assoluta, la proprietà d’esser fedele.
L’Antico Testamento è pienamente consapevole dell’unicità irripetibile della fedeltà di Dio al suo popolo. Dio è una roccia di giustizia e fedeltà, di rettitudine ed equità anche in mezzo ad una «generazione tortuosa e perversa» (Dt 32,4-5), ed ecco quindi che egli intenta un processo contro «gli abitanti del paese. Non c’è infatti sincerità né amore del prossimo… Si giura, si mentisce, si uccide, si ruba, si commette adulterio…» (Os 4,1). I Salmi lo esaltano continuamente come il fedele e fidato; di quello che fu il rapporto veterotestamentario offre la sintesi migliore 2 Tm 2,12-13: «…se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso». La contraddizione fra il primo e il secondo asserto è solo apparente, giacché all’atto della stipula del patto sul Sinai vengono grazia e disgrazia, a seconda che il popolo sia o non sia fedele all’alleanza con Dio; questi, dunque, resta in realtà fedele a se stesso allorché «rinnega» l’infedele popolo del patto, e questo è, oltre tutto, un modo indiscutibile di mantener fede all’alleanza. Essa non viene disciolta; solo dà prova delle sue conseguenze negative.
Immediatamente evidenti sono quelle che concernono l’uomo. Chi si mette con il Dio che si dedica fedelmente all’uomo, s’impegna con lui una volta per sempre. Come non si dà un ritorno indietro per Dio, giacché i suoi sono atti eterni, così non se ne dà nemmeno per l’uomo, giacché la sua risposta deve corrispondere all’offerta. «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo» (Lv 19,2). Dapprima, certo, il partner è non l’individuo, bensì il popolo; ma il popolo consiste d’individui, nei quali Iddio incide i segni del suo patto e della sua fedeltà, per tutta la vita: «…la mia alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne», dice Dio ad Abramo allorché promulga il comandamento della circoncisione (Gn 17,13). Ma il segno carnale non può esser altro che un simbolo dello spirituale: il massimo comandamento del perfetto e ininterrotto amore per l’unico Dio vanno scolpiti «nel tuo cuore», lo si terrà legato «alla mano come un segno… come un pendaglio tra gli occhi» e scritto «sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,6ss.). Che l’Antico Patto sia stato il precorrere verso un compimento trascendente, non abolisce la definitività di questa esigenza di fedeltà; come le promesse di Dio non sono mai seguite da «pentimento», così non lo è nemmeno il suo desiderio di ricevere una risposta di conveniente ampiezza. Essa è una preghiera di fedeltà, che Gesù Cristo non solo confermerà, ma eleverà al di sopra di tutte le altre.
Indubbiamente l’Antico Patto ha limiti intrinseci. Questi si fanno evidenti là dove il destino d’Israele nell’ambito dell’alleanza, suggellata solennemente tre volte da esso medesimo (Gs 24,14-27), dipende dalla condotta d’Israele stesso: un destino che può esser benedizione o maledizione (Lv 26; Dt 28). Si è già detto, però, che la fedeltà di Jahwe al suo patto si rivela nell’una e nell’altra. Simile, e solo più seria, è la situazione allorché l’alleanza va denunciata nei confronti della massa del popolo, poiché infranta pervicacemente dalla maggioranza (Ger 14,11ss.; Ez 11,22s.): in questo caso la fedeltà di Dio si concentra sul «resto d’Israele», il piccolo nucleo rimasto fedele, un’idea, questa, che, fondamentale in Isaia, vien fatta propria da Paolo, che le dà un posto centrale per esprimere la continuità fra Antica e Nuova Alleanza, e con ciò, la «giurata» fedeltà di Dio al suo patto. Ecco quindi anche in Geremia, in una con la revoca e il rigetto, l’indizione dell’Alleanza Nuova ed Eterna (31,31ss.). L’infedeltà dell’uomo, dunque, non infrange la fedeltà di Dio, come rivela l’appassionata meditazione che egli fa su se stesso in Osea: «Il mio popolo è malato della sua infedeltà… Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, …perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira» (11,7-9).
D’importanza essenziale, però, è che, col divampare dell’eterna fedeltà divina, anche l’umana è posta d’ora in poi in una chiara luce. Dalla fedeltà al patto che si esige dal popolo nei confronti di Dio (2 Re 20,3; Is 38,3) gli uomini sono educati alla fedeltà reciproca: chi teme Dio, sarà anche degno di fiducia (Ne 7,2). L’umana è proiezione e riflesso dell’eterna fedeltà di Dio: «Ti farò mia sposa per sempre, …ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21s.).
5. «Il testimone fedele»
Il sovrabbondante, entusiasmante compimento di questo sposalizio è il Nuovo Patto, in cui la fedeltà divina e l’umana s’identificano semplicemente e puramente nella persona di Gesù Cristo. Egli è l’assenso assoluto di Dio all’umanità e l’assenso assoluto dell’umanità a Dio. Per questo egli è chiamato «il Fedele» (2 Ts 3,3; 2 Tm 2,13; Eb 2,17; 3,2) o «il testimone fedele» (Ap 1,5; 3,14).
In quanto rivelazione della fedeltà di Dio, egli elimina le riserve residue dell’Antica Alleanza: mentre in questa la fedeltà di Dio si era rivelata con due facce, come benedizione e perseguitante maledizione, ora Gesù assume su di sé quella della «maledizione» (Gal 3,13); abbandonato da Dio, soffre tutte le angosce e umiliazioni predette al popolo infedele (Lv 26; Dt 28). Poiché il servo di Dio sofferente in vece d’altri (Is 53) si rivela per il «figlio unicamente amato dal Padre», e il Padre, nella sua fedeltà al patto, fa gettito di lui e «insieme a lui d’ogni cosa» (Rm 8,32), ecco che la antica fedeltà di Dio, la sua «fedeltà a se stesso», si svela finalmente in tutta la sua profondità: come mistero della vita trinitaria. La reca in luce l’infedeltà degli uomini, ponendola alla dilaniante prova estrema: la croce, il Figlio abbandonato da Dio.
In quanto rivelazione della fedeltà dell’uomo a Dio, però, lo stesso Gesù, circonciso nel tempio e battezzato nel Giordano, è il rappresentante del popolo dell’Alleanza, dell’«Israele di Dio» (Gal 6,16) dinanzi al Padre: «Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Is 8,18 = Eb 2,13).
Senonché, potrebbe esser tutto questo sufficiente, qualora non vi fosse altro che questa identità fra parola e risposta, fra grido ed eco? Non è forse necessario che «qualcuno» ascolti la parola dell’eterna fedeltà e risponda nello stesso spirito, perché la parola di Dio sia udita e accettata dal mondo tutto? Sì, è necessario questo: è indispensabile creare sulla terra una disponibilità previa alla fedeltà eterna, perché la Parola di Dio, realmente schieratasi dalla parte dell’uomo, si possa far carne. La mariologia è parte integrante della cristologia così come l’ecclesiologia: l’«ancella del Signore» deve farsi prototipo e modello del nuovo popolo di Dio, i cui membri possono chiamarsi d’ora in poi fideles, i fedeli, in senso pieno. Il cuore della Chiesa è amore fedele. È per questo che prima della comunione i fedeli pregano così: «Signore Gesù Cristo, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede (fides, cioè fedeltà) della tua Chiesa», di quella Chiesa a cui apparteniamo e al cui atteggiamento intimo desideriamo improntare noi stessi.
Il mistero cristiano della fedeltà, dunque, è non solo il trionfo della fedeltà divina sull’infedeltà umana, ma altresì il mistero nuziale che intercorre fra la Parola fatta carne e la Chiesa ad essa conformata (che, secondo Ef 5,27, è la stessa Parola di Dio a plasmare e rendere immaculata). I figli di questo eterno patto di fedeltà siamo noi: Dio per padre, la Chiesa per madre (Cipriano). E allorché Paolo definisce «grande» il mistero della nuzialità naturale fra uomo e donna in ragione del suo rapporto col Cristo e con la Chiesa, ecco emergere in piena luce quel che abbiamo cercato di spiegare come il trasparire dell’eternità dalla fedeltà intraumana: la fedeltà matrimoniale, quella tra figli e genitori, fra amici e conoscenti, Paolo non si limita a darle il fondamento Cristo-Chiesa, ma la presuppone come un fatto dell’universo creazionale, un fatto che però trascende se stesso e si riferisce a una scaturigine che gli dà il fondamento ultimo: il mistero della fedeltà fra il Cristo e la sua Chiesa, il compimento del Patto fra Dio e l’umanità. Secondo la stessa lettera agli Efesini, la creazione nella sua totalità (e quindi anche la fedeltà intramondana) è progettata già da sempre su quello che è il primo ed ultimo pensiero di Dio: il perfetto patto di fedeltà fra «cielo» e «terra».
Per concludere, tutto questo, almeno per i cristiani, non è privo di rilevanza pratica. A differenza di quanto era per l’uomo veterotestamentario, la nostra fedeltà quotidiana al prossimo non si basa unicamente sulla fondamentale fedeltà di Dio, che offre un solido fondamento ai precari rapporti umani. Si basa sul già da sempre esistente rapporto di fedeltà fra il Cristo e la Chiesa, onde la nostra capacità d’esser fedeli, la dobbiamo non solo a Dio o al Cristo, ma, tramite il Cristo, anche e sempre alla Chiesa. La Chiesa è sempre il tutto che è prima della parte, e noi possiamo e dobbiamo vivere di volta in volta l’intera nostra fedeltà come una parte, un elemento, un carisma nella Chiesa, inserendoci nel posto che nell’organismo ecclesiale ci ha assegnato Dio; solo così avremo parte nella fedeltà perfetta dell’ecclesia immaculata. E avremo parte intera, poiché siamo coinvolti nell’originario atto nuziale: come «figli» di Cristo-Chiesa riceviamo partecipazione alla «nascita da Dio», cioè all’immemorabile atto eterno in cui il Figlio procede dal seno del Padre.
Anche il cristiano può essere dunque un «testimone fedele» insieme al suo Signore (Ap 2,13). Ma può ricevere l’attributo di «fedele» anche nel suo servizio ecclesiale (Col 4,7; 4,9; Ef 6,21; 1 Pt 5,12). Per il cristiano le due forme di fedeltà dovranno essere inscindibili, così come lo è il mistero nuziale a cui egli ha dedicato il servizio di tutta la sua vita. E in forza di questa duplice fedeltà, che è solo risposta a quella che gli ha dimostrata Dio, egli potrà offrire a tutti i diffidenti che l’attorniano quotidianamente la prova che la fedeltà è ancora possibile sulla terra e che solo essa rende l’esistenza degna d’essere vissuta.
- Tr. F. Masini, da Aurora e scelta di frammenti postumi, a cura di G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano 1971, p. 28; cfr. I,27, Schlechta, vol. I, pp. 1032-1033.↩
- Tr. F. Masini, da Idilli di Messina - La gaia scienza e scelta di frammenti postumi, a cura di G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano 1971, p. 227; cfr. V,363, Schlechta, vol. II,237-238.↩
- Cfr. Epist. 94,25.42; ibid. 47,11; De beneficiis 2,1.↩
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