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L’obbedienza negli istituti secolari
Negli istituti secolari i consigli evangelici devono essere vissuti in maniera particolare, ma non per questo attenuata. Pertanto, in tutti i problemi di adattamento alla situazione particolare lo sguardo deve rimanere sempre fisso sul modello immutabile di ogni vita secondo i consigli, su Gesù Cristo e sulla Chiesa, sua sposa immacolata. Il punto di partenza assoluto non può essere dato da concetti e distinzioni di diritto canonico, perché di fronte alla realtà rivelata questi sono secondari e sussidiari; ma non può essere dato neanche da considerazioni ascetiche, psicologiche e sociologiche, perché il primo quesito che si deve porre è che cosa voglia Dio dall’uomo e poi in che modo tale volontà salvifica di Dio ci riguardi, ci faccia progredire e come debba essere interpretata in questa o in quella situazione storica.
La considerazione dei dati fondamentali della rivelazione ci dà proprio nei consigli evangelici il punto fisso secondo il quale orientare tutte le diverse questioni teoriche e pratiche.
Considereremo pertanto: 1. l’obbedienza di Cristo, quale fondamento originale della nostra obbedienza; 2. la vera obbedienza della Chiesa verso il suo Signore; 3. l’obbedienza in quanto consiglio evangelico, trascurando la sua strutturazione negli Ordini monastici e apostolici, e limitandoci alla sua struttura negli istituti secolari.
Ovviamente potremo trattare qui solo brevemente e con rapidi accenni i primi due punti. Chiedo scusa e mi appello alla loro comprensione se in questa trattazione sintetica non sarà possibile raggiungere la chiarezza totale desiderabile. I pensieri esposti possono peraltro fornire lo spunto per ulteriori considerazioni e li ritengo comunque indispensabili per la piena comprensione del nostro tema specifico. In fine dobbiamo premettere che l’obbedienza cristiana può essere compresa e vissuta solo in prospettiva pneumatica (vale a dire nello Spirito Santo) di libertà e di amore di Dio, anche laddove assume forme istituzionali e giuridiche.
1. L’obbedienza di Cristo
L’obbedienza di Cristo è contraddistinta da quattro caratteristiche che la rendono unica, ma la sua grazia ci permette di parteciparvi e fa sì che malgrado tutto possiamo imitarla.
a) A differenza di quanto accade a tutti gli altri uomini, la stessa incarnazione di Cristo (e successivamente ogni atto della sua vita) è frutto di un atto di libera obbedienza del Figlio di Dio verso il Padre (Fil 2,6ss.). Contempliamo qui pieni di fede il mistero della Trinità e scopriamo che l’amore eterno del Figlio verso il Padre nello Spirito Santo assume la forma dell’accettazione della missione e quindi di un’obbedienza divina. Nella Trinità le Persone hanno lo stesso rango, gli atti vitali sono identici, e ciò nonostante l’ordine delle processioni delle Persone è reale; quindi – parlando in termini molto umani – in Dio si armonizzano un elemento «democratico» e un elemento «gerarchico». Se il Figlio, per amore del Padre e per rappresentare l’amore di lui per il mondo e riconciliare questo con Dio, si incarna, ogni atto della sua esistenza è un’assoluta disponibilità alla volontà salvifica di Dio (oboedientia antecedens). I cristiani partecipano al mistero di questa disponibilità attraverso la grazia del battesimo, ma in modo speciale attraverso la vita dei consigli evangelici in base a una vocazione e consacrazione particolare.
b) L’incarnazione è opera attiva dello Spirito Santo (il Figlio subisce l’incarnazione) e lo Spirito condurrà e ispirerà sempre Gesù nella sua libera obbedienza d’amore. Ciò è importante, perché lo Spirito nella vita di Gesù non appare in modo primario, come un’intimità soggettiva intradivina tra Padre e Figlio, bensì come l’estrinsecazione attuale della volontà paterna, e precisamente sotto due aspetti: primo – come nei Profeti – come ispirazione e missione che viene direttamente dall’alto; secondo come quello che si presenta al Figlio già stabilito in forma terrena, nella legge e nella promessa; e il Figlio deve compierle entrambe in unità. Allo stesso modo il membro di un Istituto Secolare deve cercare di rispondere contemporaneamente alle esigenze della regola spirituale e a quella della sua situazione nel mondo. Anche Cristo-uomo rinnova sempre la preghiera al Padre di poter compiere questa doppia missione nell’unità.
c) Gesù ci mostra nella sua esistenza una perfetta identità tra l’obbedienza verso il Padre e l’assunzione di responsabilità personali nell’adempimento della sua missione. Anche questa identità ha la sua radice nel mistero della Trinità. Se nell’imitazione di Cristo noi ci sforziamo di raggiungere questa difficile identità, dobbiamo renderci sempre conto che essa non può essere raggiunta da nessuna psicologia né da ascetismo puramente umani, ma che possiamo giungervi solo attraverso la nostra incorporazione in Cristo e che condizione di ciò è la grazia santificante. Per Cristo vale da una parte: «il Figlio da sé stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre, … il Padre ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa» (Gv 5,19-20), ma dall’altra il Padre dà al Figlio il potere «di far giudizio» (5,22), anzi gli dà la possibilità «di avere la vita in sé stesso» (5,26) e quindi di tradurre, con propria responsabilità, la volontà divina del Padre nel mondo e nella sua situazione concreta. E proprio perché il Figlio è infinitamente legato alla volontà del Padre, può esprimere di fronte a lui la sua propria volontà: «Padre, voglio…» (Gv 17,24; cfr. 11,41ss.).
d) Ma la meta della vita di Gesù è sempre la croce: prendere su di sé i peccati del mondo. Egli procede in libero amore verso l’ora del Padre, ma il peso di quest’ora è assolutamente al di là della sua natura umana. Egli è venuto in terra per quest’ora e l’ha accettata liberamente di sua volontà, ma potrà superarla solo nella notte dell’obbedienza, che fa accettare ciò che nessun essere umano può volere («se è possibile, passi via da me questo calice»), anzi, nella sensazione di essere abbandonato dal Padre. Ciò dimostra allo stesso tempo che il senso della missione in quella notte non poteva più essere riconosciuto (cfr. San Giovanni della Croce). Anche nell’obbedienza cristiana vi sono talvolta momenti nei quali ci è concesso di avere con l’intuizione una parte di questo momento culminante dell’obbedienza di Gesù. Non dobbiamo dimenticare che il mondo, in ultima analisi, non è stato riconciliato con Dio né con le parole, né con gli atti, né con i miracoli, ma solo con la croce (Gal 3,10ss.; Ef 2,14ss.; Fil 2,8ss.; Col 2,14ss.). È dalla croce che tutto il resto riceve il suo significato determinante (cfr. Lettera agli Ebrei).
2. L’obbedienza della Chiesa
a) Prima ancora che la Chiesa cominci a essere un «Popolo di Dio» organizzato socialmente, con la sua struttura di cariche e di carismi, è già Corpo e Sposa di Cristo, da lui «purificata» e santificata, intimamente unita a lui con il suo Spirito e nel suo pensiero. Questa Chiesa, apparentemente ideale, è già reale inizialmente in Maria, che per grazia particolare è stata dotata dello spirito di assoluta disponibilità verso la Trinità: ecce ancilla. In lei non vi è alcun dualismo tra comandamento e consiglio, tra libertà e obbedienza, tra missione divina e responsabilità propria. Perciò può e deve esternare – a Cana – la propria volontà (come Cristo verso il Padre), perché si sottometterà subito di nuovo alla volontà di Gesù: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». La sua obbedienza è sempre deliberata, di modo che possa reagire con vera spontaneità (Lc 1,29; 2,19.51). Però, se ben si valuta ogni cosa, la sua come l’obbedienza del Figlio viene messa umanamente a troppo dura prova così che spesso Ella non comprende (Lc 2,50; cfr. Mt 12,48), e in fine viene condotta alla croce.
Intorno a questo centro della Chiesa si schierano tutti i suoi membri veramente santi, che – qualunque sia stata la forma di vita ecclesiastica – hanno saputo identificare completamente la loro volontà, la loro rinuncia e preghiera con la volontà divina, in uno spirito d’amore.
b) Ciascun cristiano, che accetta coscientemente la fede e riceve il battesimo, decide liberamente di identificare per principio il suo atteggiamento con quello interiore della santa Chiesa e di farsi educare e affinare dalla Chiesa, secondo il suo spirito, superando le proprie resistenze personali. Per superare la distanza che esiste tra l’adesione piena alla volontà di Dio e della santa Chiesa e la mia volontà di peccatore, sempre di nuovo ribelle, ai cristiani sono stati dati, innanzi tutto, la gerarchia del ministero, poi le Sacre Scritture e i Sacramenti, la predicazione e la cura delle anime. E qui dobbiamo osservare che la struttura della Chiesa rispecchia di nuovo l’unità trinitaria tra l’uguaglianza (democrazia) e l’ordine (gerarchia): nella Chiesa tutti sono fratelli, ma tra questi c’è il servizio, che riceve la sua autorità da Cristo e Lo rappresenta. L’unità di entrambi gli aspetti emerge chiaramente dalla seconda lettera ai Corinzi, in cui l’Apostolo in forza dei suoi poteri gerarchici prende decisioni, ricercando però il consenso della comunità, appellandosi alle sue migliori convinzioni, che dovrebbero esistere, e che egli desta, ammonendo. Allo stesso modo la prima lettera di Giovanni dice che i cristiani sanno e comprendono tutto, ma che ciò malgrado la lettera non è superflua. Allo stesso modo l’autorità ecclesiastica deve sempre di nuovo rendere palese ciò che la Chiesa e i suoi membri già sanno sostanzialmente, ciò che ogni cristiano come credente afferma implicitamente e in libertà: e non in modo uniforme, bensì secondo la molteplicità dei carismi, la cui unità dev’essere vissuta nell’amore ecclesiale. Ma quanto poco effetto produce di solito questa struttura ecclesiale! Quanto rimangono lontani moltissimi cristiani dalla coscienza di dover realizzare la loro vita personale di fede nello spirito ecclesiale di santa obbedienza verso Cristo e verso Dio; quanto spesso la Chiesa empirica rende difficile la comprensione della Chiesa immacolata. Quanto è esteriore il contatto tra il cristiano e la Chiesa e quale abisso pieno di problemi li separa, proprio oggi nell’ora della «contestazione» e della «disobbedienza creativa».
E qui emerge il significato della vita secondo i consigli evangelici, che rende ineluttabilmente immediati e concreti per il singolo cristiano il pensiero di Cristo e della santa Chiesa, in una forma di vita fondata da Cristo e realizzata in molteplici forme dalla Chiesa.
3. Il consiglio dell’obbedienza, in particolare per gli istituti secolari
Non ci tocca parlare qui della povertà e della verginità e neanche delle molteplici forme in cui questi consigli sono stati vissuti. Parleremo esclusivamente dell’obbedienza e del suo particolare modo di attuarsi negli istituti secolari. Non si dovrebbe però mettere in questione la dottrina formulata già dal Medioevo e già vissuta praticamente in passato, che i tre consigli si completano intimamente e che l’uno esige l’altro, di modo che da uno di essi si possono organicamente dedurre gli altri due.
Non si dovrebbe inoltre mettere in discussione che il consiglio dell’obbedienza si fonda sul Nuovo Testamento. È, infatti, fuori di dubbio che i primi discepoli, che secondo la chiamata di Gesù hanno abbandonato tutto e lo hanno seguito, non potevano ancora riconoscerlo nel senso più preciso come Figlio di Dio. Per essi, era un uomo dotato di autorità divina, cui si poteva e si doveva obbedire «al posto di Dio»1. Si può rilevare anche come i discepoli di Paolo mettevano a sua disposizione tutta la loro esistenza e venivano da lui occupati laddove volta per volta aveva bisogno di loro.
Se, successivamente, la Chiesa approva le regole degli Ordini e di altre forme di comunità, riconoscendo l’autorità spirituale dei superiori, lo fa rinvenendo volta per volta l’afflato dello Spirito, che fa sorgere nel quadro della Chiesa un modello più piccolo, più intenso e più efficace, secondo il quale i cristiani possono esercitare lo spirito di obbedienza di Cristo e della Santa Chiesa. E dato che Cristo impartisce ordini solo come un umile e un obbediente, e dato che anche la Chiesa esercita la sua autorità convincente solo nello spirito di umiltà di Cristo, per questo, in qualunque forma dello stato dei consigli, tanto il comandare come l’obbedire devono essere esercitati solo nello spirito della comune obbedienza ecclesiale a Cristo.
Ancor qui si compenetrano l’aspetto democratico e quello gerarchico. Chi comanda deve essere un uomo spirituale quanto più vicino allo spirito di Cristo e della Santa Chiesa; chi obbedisce però non deve graduare la propria obbedienza secondo la perfezione del superiore, perché questi incarna per lui solo la regola, che rimanda allo spirito di Cristo e della santa Chiesa.
E ora passiamo all’obbedienza negli istituti secolari.
In un Istituto Secolare, chi ne fa parte è impegnato attraverso i consigli evangelici col Signore e il suo Regno, in quanto si è assunto un impegno permanente in una vocazione-professione secolare. In che rapporto sta questo impegno con l’obbedienza nella comunità verso i suoi rappresentanti? Prima di cercare una risposta al quesito, vogliamo esplicitamente ricordare due deduzioni che scaturiscono da quanto detto prima. 1) In Cristo e anche nella Santa Chiesa non vi sono tensioni, non vi è alcun contrasto tra l’obbedienza e la propria responsabilità, esse nell’invio del Figlio per opera del Padre e nell’invio degli apostoli per opera del Figlio si fondono completamente. Tutto ciò che il Figlio intraprende con l’impegno di tutte le forze del suo umano spirito creativo, lo fa su suggerimento dello Spirito per compiere il volere del Padre. 2) In Cristo e anche nella Santa Chiesa non vi sono pertanto limiti alla disponibilità. In ogni situazione il Padre dispone di tutto il Figlio nello Spirito, e il Figlio dispone, nello Spirito, in ogni situazione di tutta l’attività del suo apostolo.
Partendo da ciò, si possono dedurre cinque linee direttive per gli istituti secolari. A seconda del carisma di ciascuna comunità, esse possono essere seguite con differenti modalità. Queste direttive devono essere quindi intese soltanto come norme di carattere generale, poiché per il resto lasciano un ampio margine di libertà.
a) Chi, seguendo una particolare chiamata di Dio nella vita secondo i consigli evangelici, si mette al servizio speciale di Cristo e del suo Regno, Gli mette a disposizione – nello spirito della santa Chiesa – tutta la sua vita, tanto quella spirituale come quella terrena. L’atto di dedizione (o «consacrazione»), con cui ciò avviene, comprende quindi anche la sua vocazione temporale e conferisce a essa una nuova qualità, anche se esternamente permane inalterata, dato che lo inserisce, in maniera più intima di quanto non avvenga nel battesimo, nell’ambito più intimo dei rapporti tra Cristo e la Chiesa, il quale è nelle sue origini un ambito sacramentale. La «consacrazione» non è un sacramento speciale, ma chi è consacrato inserisce volontariamente ed esplicitamente la sua esistenza nel sacramento dell’iniziazione e vuole che sia questo a determinare il senso della propria vita. (Possiamo pertanto definire la «consacrazione» come quasi-sacramentale).
b) L’atto della consacrazione avviene senza dubbio essenzialmente in seno a una comunità che concretizza la santa Chiesa e che possiede un autentico carisma comune, che unisce e comprende i singoli membri. Se ciò non si mette in evidenza, può nascere riguardo agli istituti secolari l’impressione che la comunità non sia altro che un centro di coordinamento, avente il compito di provvedere a una sufficiente formazione dei singoli membri e al loro progresso spirituale. In altri termini: si potrebbe pensare che la comunità sia al loro servizio e non debba aspettarsi da loro nulla di essenziale. Ma ciò in senso teologico è inesatto. Se la comunità come tale ha un carisma autentico, che concretizza la Chiesa, allora il membro – malgrado la sua «secolarità» – è obbligato a orientarsi sempre di nuovo su questo carisma, adeguandosi a esso.
Il carisma particolare si esprime nella regola; ma perché questa non rimanga lettera morta, ma diventi spirito vivo, occorre l’incontro personale del membro con gli altri membri – specialmente quelli responsabili – nello spirito della regola. Questi responsabili hanno l’incarico di avere cura che il membro resti fedele allo spirito ecclesiale della comunità e che lo assimili sempre più, sia nella sua vita spirituale (preghiera, mortificazione, umiltà e spirito di carità), sia nello svolgimento della sua professione. E qui si esprime senza attenuazione l’autentica obbedienza derivata dai consigli evangelici, anche se deve realizzarsi nello spirito di amore fraterno e con reciproca fiducia e sincerità.
c) L’obbedienza verso i responsabili nell’attività professionale diventa operante sempre laddove nella professione sia presente lo spirito di Cristo e della Chiesa, lo spirito dei consigli evangelici e il carisma della comunità. Se un membro si trovasse in grave pericolo nel posto che occupa, oppure se lo spirito della comunità non trovasse più espressione in un determinato lavoro, il superiore – dopo aver assunto sufficienti informazioni e dopo un colloquio fraterno con lui – può consigliargli di assumere un altro posto e, in caso estremo, anche di cambiare professione.
In situazioni del genere è importante che l’interessato non si irrigidisca nel suo carisma personale, nella sua missione personale, ma pensi alla disponibilità totale richiesta dalla «consacrazione». Si tenga anche presente quanto sia aumentata oggigiorno la mobilità nella vita professionale. Malgrado la crescente specializzazione, accade per esempio nelle grandi aziende che una persona venga trasferita da un reparto all’altro; che un diplomatico venga trasferito da un paese all’altro, ecc. Oltre a queste considerazioni se ne devono fare altre: la vita secondo i consigli evangelici è vita di rinunzia, di abnegazione e non solo per un maggiore zelo nella propria attività professionale, bensì – e in maggior misura – nel senso di accettare le mortificazioni che colpiscono la propria volontà. Proprio negli istituti secolari si trovano facilmente pretesti che fanno scudo contro questo salutare allenamento alla croce.
d) Nel caso di coloro che entrano giovani, prima di aver scelto la loro professione, sarà opportuno che questa scelta non venga fatta senza un colloquio approfondito e a cuore aperto con i responsabili, o per lo meno con i membri esperti della comunità. Se invece il nuovo membro già esercita una professione, solo in casi eccezionali questa dovrà essere messa in discussione. Anzi, il responsabile mirerà a far esercitare da quel momento in avanti la professione in uno spirito di piena disponibilità di fronte alle necessità del regno di Dio e con l’assunzione di tutte le responsabilità che vi sono connesse.
Qualora la composizione della comunità lo permetta, è molto utile disporre di consiglieri competenti per i più importanti settori professionali. Ciò solleva anche i superiori dal peso di dover trattare questioni professionali per le quali sono poco o affatto competenti. Nelle decisioni professionali più importanti, il membro si farà consigliare, non per scaricare su altri la propria responsabilità, ma per essere sicuro di agire nello spirito della comunità.
e) Entro i limiti del possibile, la comunità stessa dovrebbe essere, nel suo insieme, di aiuto e di esempio per ciascun individuo. Secondo san Paolo tutti si dovrebbero obbedire a vicenda (Fil 2,3; Ef 5,2). Gli istituti secolari dovrebbero conservare tanta vita comunitaria da consentire che tutti godano di questo beneficio. Ciò non esclude naturalmente che ciascuno cerchi anche di imparare quanto più possibile dagli incontri propri del suo ambiente secolare, specialmente nel proprio ambiente professionale. In altri termini: deve conservare nello Spirito Santo una perenne disponibilità, affermandosi nello spirito di Cristo e della santa Chiesa, in ogni situazione concreta, anche di fronte ai non credenti, senza chiudersi a ciò che può informare, stimolare ed edificare.
Con ciò naturalmente non sono stati analizzati tutti i problemi pratici e tanto meno sono stati risolti. Ma abbiamo potuto per lo meno constatare che i problemi possono, in fondo, sempre essere risolti nello spirito cristiano. Dove vengono meno le norme giuridiche ci aiuta lo spirito di carità e di disponibilità, che unisce tutti in un solo pensiero, i responsabili e tutti gli altri. Abbiamo visto innanzi tutto che negli istituti secolari l’obbedienza, sotto il profilo teologico, non è affatto una cenerentola relegata ai margini dei consigli evangelici, ma che anzi proprio questa forma di obbedienza concorda perfettamente con i misteri fondamentali della rivelazione cristiana.
- Cfr. Heinz Schurmann, I discepoli di Gesù come segno per Israele e come immagine originaria della condizione ecclesiale di obbedienza ai consigli, in «Geist und Leben», 36 (1963), pp. 21-35.↩
Hans Urs von Balthasar
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Über den Gehorsam in den Weltgemeinschaften
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AllemandMaison d’édition :
Saint John PublicationsAnnée :
2024Genre :
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Acta Congressus Internationalis Institutorum Saecularium (Romae, 20–26.ix.1970). Milano: Edizioni OR, 1971, 503–511 [tr. riveduta per questa edizione elettronica]
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