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Maria nel monachesimo
Hans Urs von Balthasar
Titre original
Our Lady in Monasticism
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Thèmes
Fiche technique
Langue :
Italien
Langue d’origine :
AnglaisMaison d’édition :
Saint John PublicationsTraducteur :
Giulio MeiattiniAnnée :
2023Genre :
Article
Source
La Scala. Rivista di spiritualità dei benedettini di Noci LVII (5 v.2003), 181–185. Anche in G. Meiattini, Monachesimo e teologia. La triplice prospettiva di H.U. von Balthasar. Collana Balthasariana. Lugano: Eupress FTL, 2012, 155–158
Tutto quello che vogliamo dire su questo tema può essere riassunto in due asserzioni molto semplici. Nostra Signora è il tipo della Chiesa. E sulla terra ella condusse una vita che fu prima di tutto contemplativa.
Ella è il tipo della Chiesa, perché è la donna pura e semplice, nella quale è riassunto tutto ciò che è femminile nella storia della salvezza. Ciò è mostrato nell’Apocalisse nella madre del Messia (Ap 12,1ss.), la quale prima di tutto è Israele, poi Maria e poi la Chiesa. Attraverso le sue sofferenze ella rappresenta l’antico popolo, in attesa della venuta del Messia, e la sua fede; questa fede ella la esprime nella sua persona e, al tempo stesso, la trascende in ragione della sua immacolata concezione, che la abilita a dare il suo assenso col corpo e con l’anima; ai piedi della croce è legata a Giovanni e resa Madre della Chiesa, tanto che i cristiani in Ap 12,17 sono descritti esplicitamente come «il resto della sua discendenza» e dunque come suoi propri figli.
Il popolo dell’allenza di Jahwe è già femminile nell’Antico Testamento: sposa, figlia, moglie; per mezzo della sua parola e della sua azione Dio è l’unico che rende fecondi – Israele deve rispondere portando, adempiendo e dando alla luce la parola. Questa femminilità attinge il suo punto più alto in colei che «ha ottenuto grazia» e senza il cui pieno consenso la Parola di Dio non avrebbe potuto farsi carne. È a motivo di lei che la Chiesa è sempre la «Sposa dell’Agnello» [Ap 21,9], chiamata a portare, a dare alla luce e allevare i suoi fedeli, come i padri della Chiesa incessantemente ci dicono. La singola anima credente dev’essere formata sempre più come «un’anima che ha ricevuto la forma della Chiesa» in quanto nutrita dalla stessa Chiesa (anima ecclesiastica, come dice Origene), così da attirare altri spiriti, ancora imperfetti, entro lo spirito ecclesiale (come dice Metodio nel suo Banchetto). Naturalmente, la patrona e signora di tutta questa pedagogia ecclesiale è Maria, lei che fin dall’inizio fu perfetta nella comprensione e nel discepolato, sebbene per tutta la durata della sua vita sia stata condotta da suo Figlio in situazioni sempre più difficili.
Se in tutto ciò Maria emerge come una personalità di spicco, essa comunque non dovrebbe essere isolata dal resto del popolo. In primo luogo appare legata indissolubilmente a Giuseppe della tribù di Davide. Questo era necessario affinché Gesù, suo Figlio, potesse apparire come appartenente alla linea davidica e come suo ultimo germoglio. Giuseppe, poi, porta la profonda impronta della sua sposa, giacché egli, come l’ultimo dei patriarchi, che avevano tutti generato in preparazione del Messia, ora deve stare in disparte, poiché Dio sta agendo direttamente. Attraverso la sua verginità egli è vicino a Maria, varca la soglia dell’Antico Testamento e partecipa intimamente del Nuovo.
La Madre, inoltre, è ancor più indissolubilmente legata al suo Bambino, a causa del quale la spada trapasserà il suo cuore. Non saremo mai in grado di stabilire quanto il Bambino imparò da sua Madre – nella preghiera, nella comprensione della storia della salvezza e come esempio meraviglioso per la sua vita – e quanto essa fu debitrice al suo Bambino, che la condusse sempre più lontano e più in alto, fino a condurla alla croce e nella Chiesa di Pentecoste.
E finalmente, dopo gli anni dell’opprimente solitudine, il Crocifisso l’associa a Giovanni: insieme essi formano la coppia verginale, che costituisce la vera e viva sorgente della Chiesa verginale. Giovanni collega Maria a Pietro, così che l’intima unità della Chiesa come immaculata (Ef 5,27) diviene inseparabile dalla sua unità esteriore, affidata a Pietro e che questi deve impersonare. Nella storia della Chiesa, la prima autentica visione mistica che viene ricordata è quella di san Gregorio il Taumaturgo, al quale Giovanni, su comando di Maria, aveva spiegato il dogma della divina Trinità nel modo più semplice e chiaro. Ciò conferma quello che avremmo comunque immaginato: che il vangelo di Giovanni deve certamente molto della sua profondità alla familiarità dell’apostolo con Maria, una familiarità nella quale il loro scambio nell’amore per il Signore fu indubbiamente reciproco. È molto probabile che [il vangelo secondo] Giovanni, nel suo prologo, faccia una discreta allusione alla Vergine Madre, quando leggiamo il versetto 13 (come in The Jerusalem Bible) al singolare: è Gesù che «non da carne e sangue né da volere di uomo, ma da Dio è stato generato», e che comunque ha il potere, come recita il versetto 12, di far diventare figli di Dio coloro che credono in lui.
In tutte queste associazioni a Giuseppe, a Gesù, a Giovanni, la madre rimase sempre la Vergine perfetta. Infatti, interpretare l’espressione evangelica i «fratelli di Gesù» [Mc 3,31; Mt 12,46s.; Lc 8,20], come significasse i discendenti fisici di Maria, non solo non è conforme al dogma, ma contraddice anche completamente le usanze dei popoli semitici, sopravvissute fino ad oggi, di chiamare i loro parenti lontani «fratelli» e di presentarli come tali.
E ora il secondo punto: Maria come contemplativa e perciò come speciale patrona di quella vita contemplativa che comparirà più tardi nella Chiesa nei monasteri di clausura e spesso anche nel mondo. Ciò che apprendiamo intorno a Maria nel vangelo punta specialmente in questa direzione. Lei è la donna silenziosa che, anche quando il suo corpo tradiva il suo segreto, non sentì il diritto di informarne Giuseppe, suo fidanzato: un angelo dovette illuminarlo e rassicurarlo [cfr. Mt 1,20]. In nessun modo ella dispone di ciò che appartiene a Dio solo, benché lo conservi corporalmente e spiritualmente nel suo cuore: ella «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Indubbiamente, essa medita anche le parole del [Gesù] dodicenne, delle quali si dice che non furono comprese da lei (Lc 2,50): è precisamente l’insondabile profondità di quelle parole che non le dà riposo ed ella avrà sicuramente collegato questa profondità con la spada che le fu predetta, la spada che dovette trafiggerla [cfr. Lc 2,35].
Ma ella medita anche le antiche Scritture in tutta la loro interezza: il Magnificat lo mostra chiaramente. Ella comprende se stessa come il compimento per grazia di quell’opera di giustificazione iniziata con Abramo, quella giustificazione di Dio il quale umilia i superbi ed esalta gli umili. Comprende questa umiliazione come grazia, non semplicemente come giustizia retributiva; infatti, descrivendosi come «serva umile» [Lc 1,48], ella dimostra di essere consapevole che l’essere collocati nel «posto più basso» è una grazia di Dio. Inoltre, solo la grazia può innalzare. Ella poi non si discosta dalla tradizione dei salmi e dei cantici, poiché include parole dal cantico di Anna nel proprio inno di lode. È patrona della salmodia nella Chiesa; può riconoscere il «Nuovo» nell’«Antico» e può pregarlo con un cuore nuovo e cristiano.
Tuttavia, vi sono anche quelle scene dolorose nelle quali Gesù, suo figlio, la tratta come fosse una straniera. Egli ha lasciato la sua casa a Nazareth ed ella per lunghi periodi a malapena conosce cosa lui stia facendo. Gli altri parenti non credono in lui. Insieme con loro lei gli fa visita, ma non viene ricevuta. Egli fonda una nuova famiglia, abbandonando quella vecchia, naturale (di cui ora lei è simbolo). Eppure la madre appartiene più di chiunque altro a questa nuova famiglia. Intanto, però, deve rappresentare (insieme ai parenti) quella vecchia e abbandonata. Dal momento che dice sempre «Sì», accetta anche questo. Ma è duro. Anche l’incontro a Cana fu duro, poiché il Figlio in un primo momento la respinse. Sembra che proprio questa occasione abbia coinciso con la sua ora, dal momento che ella sta soffrendo. L’ora di Lui invece non è ancora venuta, perché Egli deve continuare ad operare con fatica fino alla Croce. Lei non insiste, ma si esprime forse nel modo più bello dicendo: «Fate tutto quello che vi dirà» [Gv 2,5], ottenendo così ciò che aveva desiderato.
Ancora, quando le sue mammelle sono lodate come «benedette», la nostra attenzione è distolta da lei per essere rivolta verso tutti coloro che ascoltano e praticano la parola di Dio. È solo sotto la Croce che viene usata di nuovo, ma solo per essere definitivamente abbandonata dal Figlio: «Ecco tuo figlio» [Gv 19,26]. Il Figlio è abbandonato dal Padre; abbandonandola egli la assume nel suo proprio abbandono e le dona una partecipazione a ciò che è più duro e più fecondo. Così ella diviene, in quanto Mater dolorosa, Madre della Chiesa.
Da tutto ciò risulta chiaro come la vera patrona e signora dei monasteri contemplativi è Maria. La contemplazione è la parte difficile che le è stata data e tuttavia: «Maria si è scelta la parte migliore» [Lc 10,42]. Naturalmente ella non ha operato questa scelta da sola; fu Dio piuttosto che scelse, e le rese nota la scelta affinché lei acconsentisse. Ma poiché ella fu, sulla terra, la contemplativa par excellence, è divenuta, in cielo, la più attiva di tutti. La sua azione è onnipresente, spesso attraverso apparizioni, con le quali istruisce la Chiesa, ma ancor più spesso nelle vicende individuali: moltissime persone lo sperimentano direttamente.
La vita contemplativa nella Chiesa, per essere autenticamente vissuta, deve fare particolare attenzione a non dimenticare che essa è intimamente legata a una chiamata alla sofferenza. Il velo sospeso tra il monastero e l’agitazione del mondo, molto spesso, o quasi sempre, è un velo tra l’anima contemplativa e Dio. Non bisogna tentare di lacerarlo per cercare di avere un’esperienza diretta di Dio, ma piuttosto servire Dio nel silenzio come l’«umile serva». E il fatto che oggi questo non sia molto compreso, procura un gran danno in molti monasteri e quell’esempio di vera contemplazione, che essi dovrebbero dare, è sottratto alla Chiesa e al mondo. I monasteri potrebbero risvegliare il senso della contemplazione in mezzo alla Chiesa sempre più attiva dei laici, come pure dei preti e dei vescovi; o almeno pregare perché questa attività sortisca qualche frutto attraverso la preghiera contemplativa della Chiesa. Teresa di Lisieux lo aveva compreso con chiarezza. Ella aveva capito che il ruolo del monastero e della sua preghiera è, nella «macchina» ecclesiale, come quello del volano, senza il quale ogni cosa girerebbe a vuoto. La contemplazione è sì un’azione nascosta, ma anche la più efficace. Maria ne è la dimostrazione.